Ho letto con attenzione i commenti al mio esordio in questo blog. Ciascuno, giustamente, si fa un giudizio in base a quello che vede ma spero che cerchi anche delle occasioni per approfondire il perché di certe situazioni. Sono contenta di provarci anche se so che sono tanti e complessi gli aspetti di questo problema. Vorrei affrontarli, più che con discorsi astratti, raccontando storie che aiutino a capirci.

Diritti e doveri. Nessuno di noi pensa che i primi escludano i secondi, il problema è capire in quale rapporto siano tra loro. Per esempio, l’istruzione è un diritto del cittadino ed è un dovere per le istituzioni pubbliche. E, secondo me, il problema più grande delle comunità rom e sinte è proprio la scuola come condizione fondamentale per uscire dai ghetti, anche quelli nei quali ci chiudiamo noi, per avere, lo ripeto, un posto in società, nel quale trovarci con la nostra cultura con pari diritti e doveri con le altre componenti sociali.

Perché la frequenza scolastica è così bassa tra i minori rom e sinti? E perché la frequenza dove c‘è dà così scarsi risultati nell’apprendimento? I nostri bambini sono stupidi o c’è qualcosa che non va e su cui occorre intervenire?

Prendo l’esempio delle comunità dei campi regolari di Milano (sono 5, ospitano da 50 a un massimo di 200 persone, tutti cittadini italiani, rom harvati, originari della Slovenia e rom abruzzesi). Tre anni fa siamo stati sollecitati da alcune mamme che lamentavano la sospensione del servizio di scuola-bus che teoricamente deve essere garantito a tutti i minori in età scolare che stanno oltre 2 chilometri dalla scuola. Questo riguarda in particolare due comunità rom che vivono lontano dal centro urbano tra campi di granturco, senza mezzi pubblici disponibili.

Era un problema di costi, ci dissero, peccato che però lo scuola-bus continuasse per gli altri bambini e che i nostri non capissero la ragione di quella esclusione (è facile capire lo stato d’animo di un bambino oggetto di trattamenti differenziali in una fase così cruciale della propria vita, per il quale allora è più facile rifiutare la scuola per evitare il pregiudizio e il proprio senso di inadeguatezza). Con le mamme del villaggio delle rose di via Chiesa Rossa organizzammo proteste davanti al municipio e cosa ottenemmo? Nel successivo anno scolastico lo scuola-bus venne ripristinato, però solo per tre giorni la settimana (martedì, mercoledì giovedì) e con orario ridotto (9 per l’ingresso e 13.30 per l’uscita)! Cosa c’era di meglio perché i bambini rom si sentissero ancora più diversi ed esclusi?

Ora per l’anno in corso lo scuola-bus per i bambini rom non c’è più. Milano ha un’amministrazione “progressista”, cosa impedisce alla pubblica amministrazione di affrontare il tema dell’inclusione scolastica dei minori rom con mezzi adeguati e con la conseguente volontà di porre fine a un trattamento differenziale inqualificabile se non sulla base di considerare i bambini rom e sinti persi alla causa dell’esercizio dei loro diritti fondamentali?

So bene che il problema dell’inserimento scolastico dei minori rom e sinti non si risolve solo garantendo il trasporto scolastico, ma riguarda aspetti diversi e complessi, dal ruolo fondamentale delle famiglie rom che non sempre capiscono l’importanza della scuola per i loro figli, alle situazioni di pregiudizio che a volte riguardano l’istituzione scolastica stessa, all’adeguamento degli strumenti didattici alle situazioni che la scuola pubblica deve affrontare.

Io stessa come mediatrice scolastica in una primaria di Milano ho visto che troppe volte ci si limita a tollerare la presenza dei nostri bambini che venivano “promossi” anche se non sapevano leggere e scrivere dicendo loro: “Tanto arrivi in quinta, poi per te la scuola è finita”.

Se poi si arriva al punto che un’assessora all’Istruzione della regione Veneto, in Consiglio regionale non al bar sotto casa dichiari: “Se si vuole avere qualche speranza che vengano educati, bisogna togliere i bambini dagli 0 ai 6 anni ai loro genitori rom e sinti”, non basta ricordare che l’hanno già fatto i nazisti, gli svizzeri con le donne Jenisch che venivano poi sterilizzate, in Svezia e in Cechia fino a qualche anno fa. È evidente che, come si dice, il pesce comincia a puzzare dalla testa ed è allora da lì  che bisogna partire: dalle istituzioni – istituzione scolastica, amministrazione pubblica – con un lavoro in stretto rapporto con le comunità rom e sinte, perché i nostri bambini esercitino il diritto senza il quale non solo non saranno cittadini come gli altri, ma non avranno certo un buon rapporto con i “doveri”.

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