Il sottile filo che legava la trattativa tra Beppe Grillo e 15 dei 36 espulsi napoletani dal M5s alla vigilia delle amministrative 2016 di Napoli si è spezzato. Mentre resta in piedi la possibilità di una sentenza che dichiari ‘illegale’ il Non Statuto, è fallita la trattativa per una conciliazione amichevole e un reintegro senza colpo ferire e con rinuncia a risarcimenti. Un’intesa che avrebbe rappresentato un precedente nella storia dei complicati rapporti tra i vertici M5s e le voci dissonanti dal coro, finora sempre cacciate via senza possibilità di ritorno.

All’udienza civile del 5 dicembre davanti al giudice Graziano i 15 dissidenti allontanati dal Movimento con l’accusa di aver manipolato il libero dibattito sulla scelta del candidato sindaco attraverso una pagina Facebook chiusa, hanno rifiutato di aderire alla clausola di riservatezza invocata dall’avvocato di Grillo, Andrea Ciannavei, condizione ritenuta irrinunciabile per la conciliazione. L’avvocato Luca Capriello, uno degli espulsi, commenta così: “Abbiamo tentato la strada della conciliazione perché crediamo nella forza politica e di rinnovamento del movimento ma, dopo circa due mesi di trattative, l’accordo non è stato raggiunto per l’apposizione, all’ultimo secondo, di una clausola di riservatezza che svuotava di senso politico il testo dell’accordo. Abbiamo battuto la strada della piena riabilitazione politica, incontrando il favore della nostra forza politica ma la riservatezza privava la riabilitazione della sua pienezza”. Secondo Capriello “pubblicando il testo della conciliazione, il Movimento avrebbe marcato, ancora una volta, un differenza abissale con i partiti”. Ammettendo pubblicamente di aver commesso un errore e riaccogliendo pienamente un gruppo di attivisti che, salvo sorprese o ripensamenti, si terrà fuori dalla campagna elettorale del 2018. Tra questi c’è un candidato sindaco mancato alle ‘comunarie’ del 2016, Elio D’Angelo.

Altri 8 attivisti espulsi per le stesse ragioni – Marco Sacco, Massimo Acciaro, Antonio Ciccotti, Roberto Ionta, Vincenzo Russo, Paola Staffieri, Salvatore Cinque e Anna Caparro – proseguono invece dritti per un’altra strada: quella di ottennere una condanna del M5s (e in seguito un risarcimento per i danni da mancata candidatura) attraverso una sentenza che metta metta nero su bianco che il regolamento frutto del ‘Non Statuto’ va bocciato e viola le regole di democrazia interna sottintese alla vita dei partiti –  e tale sarebbe secondo loro anche il MoVimento. Spiega l’avvocato che li assiste, Lorenzo Borrè: “La nostra intransigenza nel chiedere l’annullamento del regolamento del 2014, senza “accontentarci” del solo annullamento delle espulsioni, nasce dall’esigenza di veder ripristinate le condizioni di agibilità democratica all’interno del Movimento, che consideriamo compromesse dalle modalità di promulgazione e applicazione di un regolamento che ad oggi è stato largamente utilizzato per espellere, sanzionare ed escludere dalle primarie associati non graditi. Un applicazione che a nostro avviso disattende, compromettendoli gravemente, i postulati di democrazia diretta scolpiti nel Non Statuto”. Per Borrè “il ricorso al Tribunale é stata l’extrema ratio in quanto a fronte di un tentativo di neutralizzare il dissenso interno con uno strumento “normativo” non politico, quale la continua produzione di norme ad hoc, la risposta poteva essere esclusivamente data sullo stesso piano e quindi in campo giudiziario. Sarebbe stato per loro preferibile che maggioranza e minoranza si fossero confrontate esclusivamente nel perimetro della dialettica politica democratica assembleare”. Depositate le memorie conclusive delle parti, il giudice si è riservato la sentenza nei tempi di rito: a marzo dovremmo sapere chi ha ragione e se il Non Statuto verrà o meno ‘cancellato’ dalla magistratura.

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