Nella politica star-system, incentrata sulla comunicazione d’immagine, la soluzione di ogni problema si riduce a individuare l’uomo della provvidenza; alle cui doti taumaturgiche bisogna affidarsi ciecamente. Soprattutto in una fase pre-elettorale come quella attuale, con la sfilata in corso di personaggi e personaggetti tutti chiacchiere e egomania: Matteo Renzi, Luigi Di Maio, Piero Grasso, Matteo Salvini, il “Nosferatu” Silvio Berlusconi. Ci mancava un altro esponente di questa genia di pifferai magici, cioè – con le parole del suo più recente biografo – “Giggino a manetta”: il caudillo di Napoli Luigi De Magistris.

Appunto, rimedia alla dimenticanza il mio amico Giacomo Russo Spena con il saggio appena uscito Demacrazia, il Popolo è il mio partito (Fandango). Il manifesto dell’ex magistrato delle indagini Poseidone e Why Not, rilanciatosi con bandana arancione nella natia Partenope quale leader locale del movimento di “Città ribelli”.

La tesi è che saremmo in presenza di una proposta politica radicalmente alternativa a quelle presenti sul mercato, totalmente sintonica con i modelli di una nuovissima sinistra mediterranea e iberica, con propaggini latinoamericane, che offrirebbe una via d’uscita all’esaurimento o all’incanaglimento di quella keynesiana, ridotta a Terza via, che ha egemonizzato il Novecento nell’area anglo-sassone. Poi, dal dopoguerra, in quella continentale. Da Syriza a Podemos, a Barcelona en comú, alle esperienze civiche dell’America di lingua ispanica e portoghese. Voci critiche della globalizzazione finanziaria e dei suoi disastri, che hanno trovato in Papa Bergoglio lo speaker più potente a livello planetario. Ci si chiede: De Magistris è ascrivibile a questo campo in divenire, che trova riferimento primario nel gesuita Pontefice?

Problematico affermarlo, visto che la biografia pubblica del sindaco napoletano ripercorre pedissequamente i passaggi formativi di buona parte del personale di Seconda Repubblica. Emerso dalla rottura della stagione di Mani Pulite, questo star system costruisce il proprio consenso nei flussi di visibilità offerti dalla mediatizzazione, valorizzando un’immagine a fumetti di angelo vendicatore di qualcosa o contro qualcuno. Si tratti di catarsi etica (Di Pietro), di lotta al Comunismo espropriatore a difesa della proprietà (Berlusconi), etnicità immaginaria (Bossi) o affermazione del novismo attraverso rottamazione (Renzi), per arrivare al delirio xenofobico lepeniano (Salvini), al sovranismo travet (Meloni) e alla liofilizzazione del Vaffa (Di Majo).

Lo stendardo semplicistico di De Magistris è il riscatto apologetico della napoletanità, in un’apoteosi opportunista né più né meno come gli altri. In questo caso, con un richiamo ai non nobili costumi del lazzaronismo e del vittimismo; osteggiati dalla migliore cultura meridionalistica, da Francesco Saverio Nittti a Gaetano Salvemini. E c’è un di più: l’aspirante franceschista (leggi follower di Bergoglio) non può limitarsi a proclamare valori, deve anche amministrare. Qui cominciano i punti dolenti: dal buco nero di Bagnoli, in cui scompaiono – come ricostruisce su La Repubblica Sergio Rizzo1,4 miliardi di euro, all’incapacità di rimettere in ordine i conti comunali recuperando imposte e multe non pagate.

Ma come si possono evitare consuntivi severi sul proprio operato amministrativo? Vellicando i bassi istinti della comunità. Perché la devozione al miracolo del sangue di San Gennaro o la cittadinanza onoraria all’umanamente controverso dio degli stadi Diego Armando Maradona, non sono distanziamenti dalla sinistra elitaria, quanto pura demagogia della più bell’acqua. Non populismo (termine carico di ambiguità, riproposto dal filosofo argentino Laclau figlio di terre del latifondo, senza esperienza diretta della rivoluzione industriale e del conseguente formarsi delle classi sociali moderne), bensì pura e semplice ostentazione del plebeo. Appunto, demagogia. Magari con qualche caduta nel berlusconismo, versione Briatore, con le strategie alla Billionaire dell’evento velico America’s cup davanti al Maschio Angioino con regia familistica del fratello Claudio. Pensare che questo apparato concettuale strapaesano possa trasformarsi in movimento di liberazione nazionale significa confondere Masaniello con Franklin Delano Roosevelt.

Di questi ex magistrati affetti da delirio di onnipotenza è bastata l’esperienza fatta con Antonio Ingroia e la sua Rivoluzione Civile. Gente di cui si possono pure condividere le denunce; ma le cui proposte sono tratte da una cassetta degli attrezzi di sconcertante arcaicità.

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