E la grandezza della mia morale 
è proporzionale al mio successo 
così ho rifatto il letto al meglio sai 
che sembra non ci abbiam dormito mai 

Avevo 14 anni, i miei amici mi presero la bicicletta e la lanciarono contro un albero, più volte. Durante una partita di basket, a 17 anni, litigammo così ferocemente con gli avversari che finì in rissa con gli asciugamani bagnati sotto le docce (fanno molto male, soprattutto le stecche ben assestate dove non batte il sole). Avrò avuto 20 anni quando durante un tour in Francia – suonavo il basso in un gruppo hardcore-metal – il batterista mi svegliò strofinandomi le mutande usate sul naso. Ne avevo forse 15 o 16 quando durante una festa una ragazza ubriaca slacciò i pantaloni di un amico, lo trascinò in un angolo cercando di praticargli del sesso orale. Era talmente sbronza che arrivò a vomitargli sulla maglietta, niente di più. Ne avevo 19 quando durante una serata in un locale gay, a Bologna, un ragazzo molto più grande di me mi si sedette in braccio all’improvviso, cercò di prendermelo in mano e di infilarmi la lingua in bocca.
Potrei continuare, ma credo sia sufficiente come patrimonio personale di bullismo e molestie. In fondo non frega nulla a nessuno, nemmeno a me.

Viviamo un’epoca orrenda, ne converrete: se tira una scossa di terremoto, si parla di terremoti per i 20 giorni successivi. Se un richiedente asilo stupra una ragazzina, si parla di stupri e di negri cattivi per i 20 giorni successivi. Se c’è un caso di meningite, la meningite diventa una emergenza. Per 20 giorni. Sì, lo ammetto, noi giornalisti siamo i primi colpevoli. E voi siete i favoreggiatori.

Resta un’epoca orrenda, capace di togliere “realtà” a qualsiasi cosa. Ma solo per 20 giorni. Il drago ingoia, sputa e ha sempre fame. Dallo “sbatti il mostro in prima pagina”, siamo passati, nel giro di 20 anni, allo “sbatti il mostro in prima pagina. E poi fai la morale a tutti“. Questa ipocrisia è la vera cifra del millennio. E la cosa ancora più orrenda è che tutti ne sono partecipi: vittime e carnefici, ciascuno con il proprio ruolo.

L’infezione ha una emivita di circa 10 giorni, se non l’avessi sottolineato a sufficienza. Mentre la febbre da indignazione scende, siamo già alla ricerca di altro per cui indignarci.

Kevin Spacey è l’ultimo, paradigmatico esempio.

Premessa: c’è un porco conclamato che risponde al nome di Harvey Weinstein il quale ha molestato e forse stuprato decine di attrici e aspiranti tali nel corso della sua carriera.

Svolgimento: per nutrire il drago, per le settimane successive è un profluvio di “anche io”. Arrivati all’emivita del porco, si abbandona il filone principale in cerca delle vene secondarie.

In questo lasso di tempo tutti fanno la loro parte, seguendo le regole del gioco. Un attore denuncia una molestia di 32 anni prima (non ai magistrati, al pubblico). L’attore molestatore si scusa (non chiama un avvocato, si scusa. Pubblicamente). Il fratello del carnefice invoca le attenuanti (il padre nazi, le molestie e le violenze subite da bambini). Ovviamente lo fa di fronte al pubblico.

Ce ne sarebbe già abbastanza per ritirarsi in un monastero (dove le cose accadono uguale, ma almeno nessuno ne parla), ma qui si arriva al sublime: la pubblica morale vuole il suo processo e il suo colpevole.

E così il buon network decide di punire la gallina dalle uova d’oro: via Spacey, cancelliamo le prossime serie di House of Cards. Tripudio del pubblico. Finalmente ripristinata la morale.

E pazienza se quello stesso pubblico si è pasciuto per cinque-più-una stagioni con quella stessa immoralità che ora vuole punita (e che nella sesta e ultima stagione farà record di ascolti).

E pazienza se ha strapagato milioni quello stesso presunto porco per rappresentare l’assuefazione di una intera società alla assenza di ogni forma di morale e di etica pubblica. Ora che la giustizia ha trionfato, tutto può ricominciare a girare. Il porco farà un po’ di purgatorio, poi – come piace agli americani, e da un po’ anche agli italiani – farà pubblica ammenda, sarà riabilitato e rientrerà nel giro.

È esattamente ciò che succede in House of Cards, no?

E la realtà? Finita da un pezzo. Nessuno sa dire se ci sia davvero stata una molestia, e in fondo nessuno se lo chiede. Chissenefrega. Intendiamoci: se Kevin Spacey ha molestato un minorenne, merita di pagare pegno. Alla giustizia, per prima cosa. E solo dopo al pubblico.

Viviamo un’epoca orrenda, questa la certezza, in cui si è totalmente persa la separazione tra ribalta e retroscena. Palco e retropalco sono la stessa cosa. Quello che avviene al Grande Fratello Vip campeggia sulle stesse pagine con quel che avviene in Catalogna, in Parlamento, nelle strade. Cecilia Rodriguez che se la fa con il figlio di Moser (sì, è vip perché figlio di Moser) è un pezzo di realtà di dignità pari alla morte di centinaia di persone. E nessuno insegna a nessuno come distinguere tra ciò che ha un peso per il mondo e cosa no. Anzi, tutti si nutrono della ambiguità dei piani per coltivare carriere da moralisti d’accatto. Mica al consultorio a mille euro al mese. Mica a scuola a insegnare per 1.200. Mica per noi comuni mortali che non contiamo un cazzo. No, ovviamente sui social e in Tv. Tra stelle e stelline, perché anche il moralizzatore ha un cachet. E la grandezza della mia morale è proporzionale al mio successo.

La storia è piena di personaggi grigi, se non proprio neri. Geni e talenti: Flaubert era un porco strafatto. Kubrick era un persecutore, su Woody Allen qualche dubbio lo avrei, Roman Polanski ha una richiesta di estradizione pendente. Si potrebbe continuare: Churchill? Alcolizzato. Napoleone? Mitomane. Kennedy? Un puttaniere incallito.

Ammettiamolo, gli uomini non ne escono benissimo. Ma finché la sacrosanta causa delle vittime (non femminista, ma percentualmente quasi sempre femminile) di vedere riconosciuta la violenza di certi comportamenti si accosterà senza stridore alcuno alle Wags  mogli di calciatori famosi, solitamente ritratte perineo al vento dalle stesse testate che lanciano strali contro il sessismo – continueremo sempre e solo a prenderci per il culo. Da uno scandalo all’altro, di 20 giorni in 20 giorni.

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