“Lara ieri avrebbe fatto dodici anni, è dodici anni che non c’è”. Chi mi parla è Alessandra, che oggi ha 44 anni, vive a Como ed è una donna forte, nonostante gli urti della vita, tra cui – anche – la crisi economica che l’ha costretta a fare i lavori più disparati (persino, lei colta e interprete, donna delle pulizie e badante, “un lavoro davvero gratificante”, dice a sorpresa, ma questa è un’altra storia). Alessandra si sposa giovane, a 28 anni, ha una prima figlia – Emma – dopo una “gravidanza spettacolare”, tanto da decidere di tentare un’altra volta di restare incinta. E ci riesce, subito, con grande felicità. Il primo scoglio che le si para davanti si chiama translucenza nucale, purtroppo positiva (serve a diagnosticare il rischio della sindrome di Down), accompagnata da un ecocardiogramma che diagnostica alla bimba un problema cardiologico. L’amniocentesi per fortuna scongiura la prima ipotesi, ma il problema cardiologico resta, ed è serio. La bambina è malata, ma c’è un minimo di speranza, con tutta una serie di interventi nel primo anno di vita potrà forse, dicono i medici, avere una qualità di vita decente.

Per Alessandra, proprio come per tantissime altre donne, si pone un problema angoscioso e drammatico, quando in gravidanza viene diagnosticata una patologia di qualche tipo, una malformazione, un problema. Che fare? Andare avanti? Nessuno sa, e i dibattiti ideologici sull’aborto, qui nelle stanze di casa o degli ospedali, sono lontanissimi. Anche se nessuno lo sa e ne parla, infatti, la maggior parte delle madri, e dei padri, quando c’è un minimo di speranza decide di andare avanti. “Perché io quella bambina l’amavo già dal test di gravidanza”, dice Alessandra. “Perché io, che quando non ero madre dicevo che mai mi sarei tenuta un figlio con problemi, lì non ho potuto fare altro che andare avanti”. Alessandra passa dalla Mangiagalli al Niguarda, dov’è controllata con attenzione e massima cura. Quando la gravidanza è già avanzata, in agosto (la bambina nascerà in ottobre), il battito scende pericolosamente, cominciano pertanto continui controlli settimanali per monitorare la situazione.

Il 12 ottobre si decide per un cesareo, che viene rimandato al giorno dopo. Lara infine nasce, bella e lunga, un giorno di terapia intensiva, poi dopo qualche giorno in reparto. Alessandra, come tutte le mamme, comincia a tirarsi freneticamente il latte, per darglielo con un sondino perché lei è troppo debole per ciucciare (“Ne ho avuto scorte in freezer per sei mesi, tanto me ne tiravo”). Ma la bambina all’improvviso peggiora, i medici scoprono che l’aorta si sta chiudendo, i genitori fanno in tempo a battezzarla, poi in sala operatoria. L’intervento riesce, ma si presenta un nuovo problema: una gravissima insufficienza renale. Alessandra ormai fa avanti e dietro col Niguarda, “avevo anche la ferita del cesareo ma era come se non avessi nulla”. Una notte, due giorni dopo l’intervento, purtroppo, arriva la chiamata, la bambina sta male. Quando arrivano un paravento la copre, loro capiscono, infatti Lara è sempre più gonfia. I medici assistono impotenti. Alessandra e suo marito pure, finché la bambina, nel cuore della notte, muore.

“Per un lungo periodo dopo la morte di Lara non sono stata lucida, come se non mi rendessi conto della realtà. Non c’è niente di più devastante che assistere tua figlia che sta morendo senza poter far nulla. Mi alzavo la mattina perché c’era mia figlia Emma, la gente intorno non sapeva come aiutarmi, anzi peggiorava con frasi stupide del tipo ‘dai sei giovane ne farai un altro’. Oppure, dopo aver avuto Corrado, il mio terzo figlio (“un bambino arcobaleno”, come si chiamano i bambini nati dopo aborto o morti neonatali): ‘Beh ora adesso hai lui, non pensarci più. Purtroppo quando capitò a me non c’era nessuna associazione che sopportava le madri che avevano avuto aborti avanzati o morti in culla, ho deciso io di chiedere un supporto psicologico, anche per aiutare Emma, che aspettava sua sorella, la voleva indietro, disperatamente. Per fortuna, però, io posso dire che non ho mai, mai avuto la sensazione che i medici non stessero facendo le cose giuste, ho avuto specialisti e infermiere in entrambe le strutture che si sono prodigati, persone eccezionali che lavorano tantissimo e non ho mai pagato una lira per fare le cose privatamente”. Oggi Lara riposa al cimitero, “no, non ho mai avuto il coraggio di cremarla, non potevo farle anche questo” e Alessandra va a trovarla, qualche volta, “ma senza forzarli”, insieme ai figli.

Oggi, 15 ottobre, è il Babyloss Awareness 2017, la giornata organizzata dall’associazione CiaoLapo, che assiste le madri che hanno avuto un aborto o una perdita dopo la gravidanza. “Ci siamo prese il diritto di celebrare i nostri figli, quel diritto che non ci ha dato nessuno”, dice Alessandra. Sì, perché la cosa veramente incredibile di questa storia e di migliaia di altre simili che nessuno conosce, è che nel paese più cattolico del mondo delle madri che abortiscono contro il loro desiderio, o di quelle che decidono di andare avanti con poche probabilità e tanti rischi, nessuno parla. Ci si scontra sull’aborto in maniera sterile, raccontando le donne come esseri che decidono freddamente cosa fare o non fare e dimenticando – chiunque abbia avuto un figlio lo sa – che quando quel figlio ce l’hai in pancia e l’hai voluto le emozioni ti spingono a fare di tutto perché nasca, perché l’amore – per chi un figlio lo vuole, ripeto – nasce persino prima che un test di gravidanza sia positivo. E in questi casi l’aborto, specie tardivo ma anche entro il primo trimestre, è sempre un lutto, un trauma enorme che le donne elaborano da sole, senza aiuti, senza supporti.

Tra l’altro, anche questo poco si sa ma basta fare qualche domanda per scoprire, non si tratta di un fenomeno raro, ma diffusissimo, che capita a tantissime, a chi figli non ne ha, a chi figli ne ha già. Insomma è un’esperienza tanto comune quanto ignota ai dibattiti pubblici. E se il dolore c’è quando il bambino non è ancora nato, diventa quasi insopportabile quando il bimbo sta per nascere oppure è appena nato e hai già cominciato a tenerlo tra le braccia. Come ha spiegato Alessandra, in nome di tutte, ci vuole un faticoso lavoro emotivo, per molti anni, dopo che l’hai perso. Lavoro fatto nel silenzio, supportate solo da amici e parenti. E da dottori spesso straordinari che pure vivono il lutto di un bambino che muore. E ai quali non è permesso neanche un tempo per elaborare emozioni tanto dolorose quanto  devastanti.

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