Nel contesto italiano, la mafia è un tragico indicatore del fatto che il sistema politico ha talmente consolidato le sue basi, la sua organizzazione strutturale, da non consentire alcuna innovazione, quale che ne sia il tipo. Un’insorgenza sintomatica, insomma, di una situazione bloccata, al pari del terrorismo, fenomeno con il quale la mafia stessa condivide la predilezione per la violenza, anche se tra l’uno e l’altra corre una sostanziale differenza: quello mira a darsi una dimensione “pubblica” cercando un collegamento con le masse, la legittimazione, cioè, che trasformi i propri militanti in combattenti di una guerra civile; questa punta, invece, a ridurre qualsiasi affare pubblico a interesse privato.

A dimostrare, assai meglio di quanto non faccia l’evocazione di concetti quali lottizzazione, clientelismo, corruzione, la situazione di stallo in cui versa la democrazia italiana, concorrono del resto alcuni argomenti, fra loro logicamente correlati, relativi a certe sue anomalie strutturali, sulle quali il terrorismo ha basato almeno parte della sua ideologia antisistema e le mafie hanno costruito le proprie fortune.

Innanzi tutto, nell’Italia repubblicana, nata come Stato a sovranità limitata, agli apparati istituzionali di sicurezza, ma anche a libere organizzazioni come la massoneria, s’è assegnato un ruolo del tutto autonomo e originale, che li ha legittimati ad agire quasi fossero legibus soluti. Non mancano, in proposito, gli esempi di come i misteri di mafiosi e terroristi, abituati anch’essi ad agire nell’ombra, si siano intrecciati spesso con quelli dello Stato, generando a volte inestricabili combinazioni di arcana dominationis e arcana seditionis, dal coinvolgimento dei servizi segreti nelle stragi terroristiche alla mediazione della Camorra nella liberazione dell’assessore campano Ciro Cirillo, rapito nel 1981 dalle BR. E neppure mancano esempi di contaminazioni inquietanti fra terrorismo e mafia, quali il ricorso al metodo tipicamente mafioso della vendetta trasversale nel caso del rapimento e uccisione da parte delle BR, sempre nel 1981, di Roberto Peci, la cui colpa era d’essere il fratello di Patrizio, pentitosi alcuni mesi prima; ovvero il “terrorismo mafioso” delle stragi del 1993.

La presenza, peraltro, di un apparato occulto di potere ipertrofico, non soltanto circoscrive gli spazi pubblici della competizione democratica, ma ne altera i meccanismi concorrenziali, attribuendo un vantaggio illecito a chi già detiene certe cariche di governo, la cui posizione si rafforza: se, per un verso, le ineguaglianze, più politiche che sociali, determinano gradi diversi di libertà, con conseguenti maggiore libertà goduta, maggiore gamma delle scelte, maggiore repertorio di decisioni, e la possibilità di prevederne realisticamente gli esiti; per altro verso, relativamente al problema del crimine, chi è più potente possiede maggiore possibilità sia di attribuire le definizioni di criminalità agli altri e di respingere quelle che gli altri gli attribuiscono, sia di controllare gli esiti della propria condotta criminale, generalmente non facendola apparire come tale e ottenendo di vedere il proprio vizio tramutato addirittura in virtù.

Queste dinamiche distorte, finalmente, hanno, col tempo, alterato il ruolo dell’opposizione, trasformando la pratica democratica del compromesso in quella dello scambio di favori: se non vogliono essere esclusi del tutto dalla competizione, anche gli avversari politici devono cercare d’occupare posizioni di potere. Difficile non vedere come l’arena politica si sia frammentata in una pluralità di oligarchie, alle quali non corrisponde, però, alcuna autentica forma di pluralismo; come il movimento storico di centralizzazione dello Stato si sia invertito, producendo la riscoperta della periferia quale luogo privilegiato, mentale più ancora che fisico, della gestione delle risorse; come i potentati locali, perduta ogni connotazione ideologica, siano divenuti centri di smistamento d’interessi di natura prevalentemente economica; come l’elezione, ridotta a competizione amico-nemico, si giochi ormai sulla falsariga di un duello, mediatico più che reale, con tanto di regole e presunto codice d’onore, mentre il dibattito politico non recepisce temi che non siano facilmente riformulabili in slogan referendari e spendibili in manifestazioni plebiscitarie di consenso-opposizione. Ovvio che da questa nuova forma di competizione politica, se il terrorismo può teoricamente trarre nuove speranze di armare l’insoddisfazione degli esclusi, le mafie ricavano cospicui introiti e una, magari involontaria, legittimazione della propria subcultura del clan.

L’ultima indagine che ha investito la ’ndrangheta, nella Locride e, alcuni giorni or sono, decapitato 23 clan, ha condotto a emersione non solo strutture e cariche di nuovo conio in grado di sostituire e superare quelle svelate da pregresse inchieste e processi, ma anche veri e propri “tribunali” per reprimere chi violi le regole del sodalizio. Uno dei 116 finiti in manette, parlando con altro affiliato, avvalendosi del suo nome per ribadire il suo potere e il suo controllo sul territorio, non esita a definirsi Stato: “Lo Stato sono io qua, Pe’! … Controlla! La mafia. La mafia originale però, non la scadente“. Questo ulteriore sintomo del fatto che il potere legittimo è ormai incapace di svolgere i suoi compiti se non in modo ripetitivo, di rinnovarsi adeguandosi a nuove esigenze o nuovi stimoli, di svilupparsi e di autoregolarsi, ci pone prepotentemente di fronte all’interrogativo, a cui non ci si potrà sottrarre dal rispondere, se i mafiosi che ore rotundo si proclamano Stato siano protagonisti di una nuova forma di “privateering”, cioè di “guerra da corsa”, o siano ancora e pur sempre soltanto dei “pirati”.

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