Qual è il limite del sistema d’accoglienza italiano? La domanda resta inespressa nell’informativa del 5 luglio al Parlamento del ministro Marco Minniti. Il titolare del Viminale comincia e finisce proprio con le preoccupazioni della tenuta del sistema di accoglienza. Gli sbarchi, afferma, sono stati 85mila dall’inizio del 2017, 18,40% in più rispetto allo scorso anno. Si confermasse la tendenza, significherebbe circa 36mila sbarchi in più. Ovvero circa 210mila arrivi. La prima volta oltre il muro dei 200mila.

Cosa significa questo per il sistema di accoglienza? Le variabili sono molte. Dipenderà dall’atteggiamento dell’Europa: se i confini resteranno chiusi e il programma di relocation continuerà a produrre poco (7.500 in sei mesi, con 405 in “via di immediata definizione”, come dice il ministro), la tenuta può essere a rischio, per il Ministero dell’Interno. Tanto che spunta l’ipotesi, anticipata da la Stampa, di “mini-tendopoli”, al massimo “due per ogni provincia”. Ad una richiesta di conferma della notizia, dal Viminale il portavoce Felice Colombrino risponde così: “È un’ipotesi estrema, non ci sono tendopoli in programma, per ora. Certo che se continua così…”. Dal ministero si punta all’accordo di Parigi con Francia e Germania per rafforzare i ricollocamenti dei migranti in Paesi europei e a regolamenti più stringenti per punire chi non rispetta le regole. L’altro aspetto su cui scommette Minniti è che anche gli altri Paesi europei accettino le navi delle ong per scaricare i migranti salvati in mare. Speranze che al momento sembrano vane. Ma la soluzione possono davvero essere le “mini-tendopoli”?

La prospettiva è molto osteggiata dall’Anci, l’Associazione nazionale Comuni italiani. “Non ci siamo mai arrivati e credo che non sia opportuno arrivarci – spiega il referente per l’immigrazione, il sindaco di Prato Marco Biffoni -. Ci vuole organizzazione sia per offrire un’accoglienza dignitosa, sia per non creare tensioni sociali. Non si può nascondere che comunque ci sia il timore che con questi numeri il sistema non regga”. Biffoni si spinge fino a definire un numero: 200mila presenze in tutto. È su questa capacità massima che il sistema è stato tarato. Duecentomila compresi i titolari di protezione umanitaria (chi ha avuto riconosciuto il diritto a restare in Italia, nda) e i richiedenti asilo. Compresi i Cara, gli hotspot, i nuovi Cie, i centri di prima accoglienza, i centri di accoglienza straordinaria, gli Sprar (il sistema ordinario). “Siamo un Paese di 60 milioni di abitanti, numeri del genere siamo in grado di sopportarli – prosegue il sindaco di Prato – Forse anche qualcosina di più. Bisogna però riconoscere che c’è un limite”.

Invece che cercare, in emergenza, di mettere una pezza a una questione che sembra sempre più ingovernabile, ci sono altre strade percorribili per garantire accoglienza degna e nessuna tendopoli. Tenendo per altro le strutture d’accoglienza più monitorate rispetto a quelle d’emergenza. La più importante è aumentare il turnover di chi resta nei posti Sprar, il Sistema di protezione richiedenti asilo e rifugiati, il sistema ordinario dell’accoglienza e (a parole) quello sostenuto da tutti. Nel 2016 contava 26mila posti dai quali sono passati oltre 34mila richiedenti asilo e rifugiati. Sempre un’inezia rispetto al sistema in emergenza, quello imposto dalle Prefetture con i Cas (Centri di accoglienza straordinaria) che contano circa 137mila posti.

Perché nello Sprar il ricambio è così lento? Il collo di bottiglia sta nelle Commissioni territoriali, gli organismi ministeriali preposti a decidere sulle domande d’asilo. I tempi di attesa per l’esame di una domanda sono di nove mesi. Troppo. “E nei conteggi non si tiene conto che solo per depositarla spesso sono necessari altri mesi, a seconda delle questure”, commenta Daniela Di Capua, direttrice del Servizio centrale dello Sprar.

Lo Sprar è un sistema che a differenza dei centri di accoglienza emergenziali (i Cas o, in prospettiva, le mini-tendopoli) non può essere imposto ad un Comune. Ad oggi sono circa 1.500 quelli che hanno accettato di entrare nel sistema ed è previsto da un accordo dello scorso agosto Anci-Viminale che questi non vengano considerati dalle prefetture come possibili destinatari di altri richiedenti asilo. Il numero di posti, negli ultimi sei mesi, è aumentato di 5.500 unità, tra nuovi Comuni e vecchi che hanno deciso di ampliare il loro sistema d’accoglienza. L’infrastruttura, quindi, c’è, nessun affanno. Ci sono però tempi tecnici per individuare i nuovi centri di accoglienza spesso molto lunghi e questo non aiuta. In più, dice Di Capua, “c’è un enorme ritardo nella programmazione”, anche rispetto a decisioni già prese da tempo.

Nel 2013, due anni dopo il primo picco di arrivi, la cosiddetta Emergenza Nord Africa, la Conferenza Stato-Regioni aveva ratificato un accordo per creare hub regionali che poi smistassero in centri più piccoli i migranti. Un modo per evitare che lo sforzo della prima accoglienza ricadesse solo su alcuni e che sarebbe andato di pari passo al potenziamento dello Sprar. Quattro anni dopo il piano è ancora fermo. “L’accoglienza diventa critica non per i numeri in sé – sostiene Di Capua – ma perché gestire oltre 200mila persone è complicato con questo sistema”. E anche quando ci sono le idee per uscire dalla logica dell’emergenza, i tempi per rendere una decisione sono ugualmente infiniti. La soluzione dell’ultimo minuto da tirare fuori dal cappello, così, è sempre “in emergenza”: tendopoli o centro di grandi dimensioni.

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