“Ti prego di fare un salto a casa mia, con urgenza”.
Ho trovato sotto la soglia della porta di casa un biglietto della vedova che abita al terzo piano.
Sono sceso immediatamente.

La vedova ha gli occhi arrossati dal pianto ma sorride, contenta del mio arrivo. Fa cenno di seguirla.
La casa è immersa in una penombra vagamente funerea, tagliata da una musica rock, aspra e intensa.
Attraverso la porta socchiusa, la donna indica il figlio, seduto sul letto, intento ad ascoltare la sua razione quotidiana di musica rock. Il ragazzo alza e abbassa il capo ritmicamente, a occhi chiusi. La vedova nasconde le lacrime asciugandole con il fazzoletto.

Non capisco il perché di tanto mistero, poi, quando la vedova si passa rapidamente una mano sul capo indicando il capo del figlio noto che il ragazzo ha, da ambedue i lati, la testa perfettamente rasata, solcata da un ciuffo rigido di capelli che rende la capigliatura simile a un elmo, una minuscola criniera irrigidita dal gel. Si direbbe la cresta di un animale sconosciuto.

La madre preme le palme delle mani sugli occhi.
“Non può uscire di casa per un mese. L’hanno sorpreso l’altra notte mentre imbrattava i muri con i suoi amici. Parlargli tu, io non lo capisco”.

La vedova entra di forza nella stanza e abbassa il volume della musica quasi a zero. Il ragazzo alza il capo pronto a reagire ma vedendomi gli sfugge un sommesso: “Ciao, che succede?”.
Ha confidenza e fiducia in me perché l’ho sempre ascoltato, sin da ragazzino, sostituendo in minima parte la figura del padre, che il ragazzo non ha mai conosciuto. Faccio cenno alla madre di lasciarci soli e il ragazzo mi porge una sedia e spegne la musica.

“Dimmelo tu cosa succede”, chiedo.
“M’hanno beccato che stavo facendo i graffiti all’ingresso della metropoli-tana”.
“Cosa provi quando disegni sui muri della città?”
“In qualche modo uno si deve sfogare. Noi ragazzi non abbiamo niente di niente e non capiamo il modo di vivere di questi adulti che passano la vita a pagare bollette, multe, lavorando ore e ore non si sa perché o per chi. Quando disegniamo una scritta che non si capisce è come se finalmente anche noi diciamo la nostra, un modo per segnare il territorio, sentirlo un po’ meno lontano. E’ come se dicessimo agli adulti. Noi non capiamo quello che fate e perché lo fate, adesso tocca a voi non capire”.

“E adesso ti hanno dato una multa?”.
“Il giudice ci ha condannato o a tagliarci i capelli o a rimanere chiusi in casa un mese”.
“Tu cosa farai?”.
Si sfiora la cresta con la mano. “Piuttosto di fare quello che dicono loro rimango in casa tutta la vita”.

Gli faccio una carezza sulla nuca perfettamente rasata. Mi mostra alcuni disegni, prendendoli da sotto il letto. “Perché li tieni sotto?”.
“Non interessano a nessuno”.
Si tratta di disegni straordinari. Uno rappresenta un gruppo di ragazzi tutti con la cresta punk, sospesi in un cielo senza nubi. Sulla destra una ragazza con una bomboletta spray sta scrivendo al centro dell’azzurro: “Addio”.

I giovani, al centro del cielo disegnato volano in cerchio, come stormi di uccelli in autunno: volano verso una società lontana.

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