Se cinque minuti prima del tragico attentato a Charlie Hebdo qualcuno avesse fatto un sondaggio, vignette alla mano, e avesse chiesto ai futuri “Je suis Charlie” se si sentissero vicini allo stile e al tipo di satira della rivista francese in molti avrebbero detto di no. E un numero ancora maggiore di intervistati ipotetici avrebbe negato di riconoscere come proprio lo spirito delle vignette. Charlie Hebdo era una rivista con una schiera relativamente limitata di lettori e abbonati.

Poi è venuto l’attacco terroristico contro la redazione, con tutti i morti e i feriti di cui sappiamo. Improvvisamente tutti nel mondo hanno sentito parlare della rivista parigina, molti per la prima volta. Il veloce turbinio di violenza che ha scosso rue Nicolas-Appert si è subito tradotto in un generale sentimento di indignazione. La libertà di satira e di stampa erano state violate, nel modo peggiore in cui potesse accadere.

Questo sentimento, più che legittimo, ha trovato voce in un motto molto forte, “Io sono Charlie”, che va oltre il discorso sulla laicità dello Stato e la difesa ad oltranza della libertà di espressione. Dire “Io sono Charlie” è diverso dal dire “Io non sono Charlie, trovo la satira proposta da questa rivista scadente e di cattivo gusto, perché mi rendo conto che la raffigurazione sessuale di figure religiose può essere offensiva per molti, ma nonostante ciò condanno con vigore l’attentato, sono addolorato per la morte di giornalisti e vignettisti, e credo che in uno Stato liberale ognuno abbia la libertà di fare satira su ciò che vuole, anche se questa satira non mi piace”.

La brutalità dei fatti di cronaca ha tolto spazio e attenzione a una seria analisi su cosa fosse davvero Charlie Hebdo. Invece di soffermarsi sul concetto di libertà di espressione si è finiti per fare un endorsement alla rivista francese. I “Je suis Charlie” italiani che oggi si indignano per le vignette sul terremoto di Amatrice pubblicate dagli ormai celebri vignettisti francesi cadono in contraddizione perché fin dall’inizio non hanno voluto distinguere, o forse non hanno pensato a farlo, il giudizio sulla satira offerta da Charlie Hebdo e il discorso più generale sulla libertà di satira.

In un certo senso le vignette sul terremoto sono state una prova del nove. Se dopo l’attentato al settimanale ti limiti a dire di essere Charlie e dopo il terremoto sostieni che la lasagna di morti sia vergognosa non è irragionevole che ti si rinfacci che la satira ti sta bene solo quando prende di mira gli altri. Se invece i “Je suis Charlie” che oggi si accorgono di non essere poi così vicini a chi utilizza lo stereotipo dell’italiano spaghettaro per ironizzare sulla morte di quasi trecento persone, avessero detto fin da subito di non essere Charlie, pur mostrando dolore per le violenze subite dai vignettisti, oggi potrebbero difendere la satira nel suo complesso, quella bella e quella brutta, restando immuni da ogni accusa di doppiopesismo.

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