Alla fine sono stati messi alla porta. Dopo mesi di polemiche sono stati licenziati i 109 operai che lavoravano per le aziende edili del gruppo Aiello di  Bagheria, in provincia di Palermo. Potrebbe sembrare un licenziamento come tanti altri, un’azienda attiva nell’edilizia che – a causa della crisi – non riesce a sopravvivere e alla fine è costretta a lasciare a casa i dipendenti. E invece quella dei lavoratori del gruppo Aiello è una storia diversa. Perché ad essere licenziati sono i dipendenti di un’azienda che lo Stato ha confiscato a Cosa nostra.

È per questo motivo che quella andata in onda a Bagheria rappresenta l’ultima grande batosta per il mondo dell’antimafia. Ad essere messi alla porta, infatti sono gli operai dell’Ati group, della Edilmar e della Italtecna, e cioè le società che un tempo rappresentavano il ramo edile dell’impero di Michele Aiello, il ricchissimo ingegnere condannato a 15 anni di carcere per associazione mafiosa, storico prestanome del boss Bernardo Provenzano, specializzato nella gestione di cliniche di lusso, prima tra tutte la Santa Teresa.

La decisione di licenziare i lavoratori, anticipata dal fattoquotidiano.it nei mesi scorsi, è stata presa ieri dalla direzione provinciale per il lavoro di Palermo a conclusione della procedura di mobilità, ma la Fillea Cgil annuncia già l’impugnazione di tutti i licenziamenti e il patrocinio di tutte le azioni legali necessarie. Il sindacato si dice pronto a portare la questione all’attenzione del ministero dell’Interno, dal quale l’Agenzia nazionale dei beni confiscati alla mafia risponde.

“Questi licenziamenti costituiscono un precedente inaccettabile. Potrebbe aprirsi una voragine, se consideriamo che metà delle aziende sottratte alle mafia in Italia risiedono in Sicilia. Oltre al dramma per le famiglie, il risultato oggi è un danno sociale ed economico per i territori e una caduta della credibilità dello Stato democratico”,  dicono i segretari provinciale e regionale della Fillea Cgil, Francesco Piastra e Franco Tarantino.

Secondo i sindacalisti, tra l’altro, non sussistono i presupposti per questi licenziamenti. “Sono state negate al sindacato – spiegano – le informazioni sui bilanci degli ultimi tre anni che, incredibilmente, non sono mai stati pubblicati. Così come non abbiamo avuto informazioni sullo stato delle commesse e dei contratti in essere e sulle relazioni periodiche che sono obbligatorie, come prevede il Codice delle leggi antimafia per la gestione delle aziende confiscate. L’Agenzia nazionale dei beni confiscati alla mafia deve garantire tale continuità come da previsioni di legge. Non può chiedere e sollecitare sindacato e lavoratori a formare la cooperativa prevista dalla legge e poi, con una clamorosa marcia indietro, rimangiarsi tutto e affermare che la legge non si applica”. E mentre sul fronte dei licenziamenti dei 109 operai si preannuncia una battaglia a colpi di carta bollata, resta ancora aperta la partita della destinazione dei beni aziendali e delle commesse delle società: l’Agenzia dei beni confiscati, che deve ancora riunire il suo consiglio per deliberare in questo senso.

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