Siamo sul bordo meridionale dell’atollo. A sud, l’oceano aperto. Tanto mare e tanti pescioni che transitano per andare in giro per i fatti loro. A nord, il reef oceanico, una bella parete su cui si può vedere un po’ di tutto; a volte, nei giorni di grande gloria, persino lo squalo balena. Si avvicina alla superficie per risucchiare tutto il plancton, e se ne sta placido e caro là, a farsi rimirare. Ma non lo abbiamo avvistato dalla barca, quindi proviamo a fare l’immersione in quel punto, dove sappiamo esserci, parallela al reef , una secca popolata da squali di vario tipo, mobule (mante miniaturizzate, in pratica), e pescioni in generale.

Ci tuffiamo e, mentre avvisto il mio collega che si inabissa sul ciglio della secca che si affaccia sul mare aperto, inizio già a bofonchiare fra me e me. Questa settimana ho cura dei subacquei meno esperti, quindi tanti saluti alle mie velleità di sprofondare chissà dove. Loro non sono abilitati a scendere oltre i 20 metri, e, se anche lo fossero, i loro consumi ricordano più quelli di una fuoriserie che di un essere umano, quindi sarà il caso di rimanere belli tranquilli e piuttosto alti. Nessun problema. Iniziamo a nuotare verso il reef interno e, appoggiati sulla sella di sabbia fra le due placche di corallo, notiamo subito un bello squalo pinna bianca che si lascia avvicinare in tutta serenità per essere guardato. Finché non decide che il baccano delle nostre bolle lo molesta viepiù, e sdegnato alza le pinnette e se ne va.

Vedo emergere dal bordo della secca, fuori alla mia sinistra, un altro squalo della stessa specie. Estraggo dalla mia tasca la fida bottiglietta di plastica che, debitamente accartocciata, confido sempre attragga qualche pescione incuriosito, e dal blu vedo sfilare verso di noi un discreto tonno, di quelli, come li chiamo io, “da combattimento”. Sono i longtail tuna (Tunnus tonggol), delle belle sveglie da un metro e passa per una trentina di chili. Quando sfrecciano a tutta birra vicino ai subacquei sono più inquietanti degli squali, con quegli occhioni sgranati e la loro espressione torva, spesso condita da qualche cicatrice a testimonianza della dura lotta per la sopravvivenza. Ma non divaghiamo. Arriva il tonno a tutta velocità e, dietro di lui, un esemplare piuttosto piccolo ma nervoso di squalo grigio di barriera. Sono sulla stessa rotta, o l’uno insegue l’altro o stanno andando a caccia della medesima preda. La visibilità non è sconfinata, a causa della presenza del plancton di cui dicevo poc’anzi, quindi non lo sapremo mai. Ma la scena è avvincente.

Dai, hai visto mai che anche senza sfondoni, esce una bella immersione? Intanto, più alti di noi, avvisto un bel branchetto di carangidi. Non sono proprio sopra la barriera ma appena spostati nel blu, quindi punto verso fuori anche io e inizio ad avvicinarmi, sempre coi miei accoliti fedelmente dietro le mie pinne. Estraggo di nuovo la fida bottiglietta e inizio a pastrugnarla a tutt’andare. I carangidi ci volteggiano intorno, e noi ne seguiamo le evoluzioni ammirati, girando insieme a loro. E gira che ti rigira, torno a puntare lo sguardo sulla parete, quando di punto in bianco lo vedo. Il suo testone inconfondibile con la bocca diritta. Gli occhi mobili in costante osservazione del circondario, la livrea a pallini che sembrano quasi tracciati da una bomboletta spray. Sta arrivando dalla barriera verso il mare aperto un giovane squalo balena. Molto piccolo. Un paio di metri e mezzo. Lo indico immediatamente al mio gruppo di sub, inizio a delirare dalla felicità (non tanto per me, quanto per loro che non lo hanno visto mai), faccio mille versi e poi mi acquieto, e inizio a tampinare l’animale senza disturbarlo o farlo scappare.

Siamo fortunati: punta verso la superficie per andare a mangiare, spalancando la boccona. Il che significa che per un po’ di tempo starà lì mansueto. Lentamente riduciamo anche noi la quota. E lo avviciniamo timidamente, a distanza di sicurezza. Non per la nostra sicurezza: lo squalo balena è innocuo. Ma per la sua. Per non disturbarlo, affannarlo, spaventarlo. Dopo qualche gozzata d’acqua, decide che siamo più interessanti del suo pasto e inizia a girarci intorno. E noi giriamo con lui. Anzi lei, perché è una signorina, vedo adesso. Nuotiamo paralleli. I miei sub un po’ distaccati, forse intimiditi o semplicemente più lenti, io più vicina, da cafona vera. Non ci posso far niente. Me la guardo tutta. Gli occhietti, la codina, la pancia da sotto e il dorso da sopra. Ha delle cicatrici sulla pinna caudale e su quella dorsale. Deve essersi presa delle eliche qua e là. Ma sta bene e spero che raggiunga le dimensioni ragguardevoli dei suoi parenti adulti, prima o dopo. Intanto che nuota, si affianca a uno sparuto branco di barracuda giganti. Anche loro ci guardano, abbastanza indifferenti, devo ammettere e poi prendono il largo. La nostra piccola amica fa anche un discreto quantitativo di bisogni, nel frattempo – Poseidone, stai mandandomi mica un messaggio? – bisogni prontamente divorati dai pesci chirurgo che compaiono dal nulla (brutti zozzoni!).

Nuotiamo tutti insieme, lei, io e il gruppo a un di presso ancora per qualche istante, poi decide che l’abbiamo annoiata abbastanza e inizia a scendere verso il mare aperto. Noi non la seguiamo. Vuoi perché siamo già da un po’ in immersione e il gruppo non ha ancora molta aria, vuoi perché “un bel gioco dura poco”, diceva la mia nonna, quindi ora è bene lasciarla andare, la squalotta. Cerco per l’ennesima volta l’approvazione del mio gruppo che, con il proverbiale entusiasmo degli europei dell’est accenna a un sorriso compiaciuto ma non di più. Torno verso la parete per risalire col conforto del reef e qualcosa d’altro da guardare, lancio il mio palloncino di segnalazione e mi appendo alla sagola ai 5 metri insieme ai miei seguaci, per fare la tappa di sicurezza. Come abitudine, o vizio che lo vogliate chiamare, continuo a guardarmi intorno.

Aspetta, aspetta, che cosa sono mai quelle? Ah cavolo, cinque mobule in formazione! Rinizio a schiamazzare per richiamare l’attenzione dei miei, i quali al solito non si scompongono neanche per quell’apparizione, ma annuiscono al mio indirizzo quasi fossi una bimba scema a cui dar ragione (magari è così, eh?). Le mobule scendono, noi rimaniamo alla quota nostra, finiamo i tre minuti di sosta, e risaliamo in superficie. Finalmente li sento emettere delle esclamazioni che, suppongo, siano di soddisfazione. Non parlo la loro lingua, né loro la mia. Il loro inglese è debole ma capisco che sono felici degli avvistamenti, per quanto poco lo diano a vedere. Uno di loro riesce a chiedermi se sia la prima volta che vedo un balena.

Evidentemente la mia reazione di giubilo, e soprattutto il mio percuotermi il capo a furia di nocchini per non avere una macchina fotografica dietro, deve averlo tratto in inganno. Strano, io che sono così pacata e misurata! E quindi tanti saluti ai profondisti, oggi abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione che senza bisogno di andare nella Fossa delle Marianne, si fanno delle signore immersioni anche nel range delle quote dei principianti. Perché, come dice il mio amico e sodale di zingarate marine Alessio: “le cose più belle del mondo non stanno né in cielo né in terra”.

Foto archivio personale di Peppe Marini

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