Chiunque sarà trovato sarà trafitto, chiunque sarà colto cadrà di spada. I loro bimbi saranno schiacciati davanti ai loro occhi, le loro case saran saccheggiate, le loro mogli saranno violentate. Isaia, 13:15-18

L’umiliazione subita ad Adua nel 1896 venne soffocata nei gas della seconda campagna d’Etiopia, fondata, secondo Volpato, su “un’ideologia razzista” che con “mezzi terroristici, quali incursioni aeree con bombe incendiarie e all’iprite” praticò “stragi ed infamie, oppressioni e rapine, deportazioni e violenze di ogni genere” (Del Boca), uccidendo centinaia di migliaia di persone nel 1935-36. Nessuno scampava alla “furia repressiva di Graziani”; “non si facevano mai prigionieri (…) e si fucilavano anche donne e bambini”. Molte donne etiopi furono deportate nei campi di concentramento. Alle “faccette nere” “veniva riconosciuta come unica identità quella sessuale” ed esse furono vittime di ogni abuso: dal sorteggio tra ufficiali italiani delle mogli di nemici sconfitti, agli stupri, compresi quelli di bambini descritti da Gandolfi. Molte ragazzine furono ridotte a concubine e secondo le testimonianze di reduci d’Africa raccolte da Le Houérou la colonia era “un paradiso per gli uomini anziani”, sicuri dell’impunità.

Il 14 maggio 1944, alla vigilia della battaglia di Montecassino, anche il generale francese Juin promise l’impunità ai Goumiers marocchini. Dopo la battaglia, i Goumiers non solo razziarono il bestiame ed i beni, uccidendo molte persone, ma violentarono diverse migliaia di donne e bambine in Ciociaria e centro Italia, oltre ad infliggere la stessa punizione a centinaia di uomini intervenuti a loro difesa, come il parroco di Esperia (paese di 2500 abitanti dove 700 donne furono violentate), don Alberto Terilli, perito nelle violenze. Questa tragedia è raccontata ne La Ciociara di Alberto Moravia e nell’omonimo film di Vittorio De Sica con Sofia Loren.

In Bosnia (1992-95) ed in Ruanda (1994) lo stupro fu un’arma genocida per decine di migliaia di donne musulmane ed almeno 250.000 donne e bambine Tutsi. L’esodo dei profughi ruandesi Hutu verso lo Zaire alla fine del genocidio, inquadrati dalle autorità organizzatrici dei massacri e dai militari e miliziani che li avevano eseguiti, sprofondò una regione immensa, ricchissima di risorse, in 20 anni di letali turbolenze, milioni di morti e le più inimmaginabili violenze contro le donne e i bambini, di cui si sono macchiati anche i peacekeepers dell’Onu, come anche in Repubblica Centrafricana, da cui pochi giorni fa le Nazioni Unite hanno ritirato i caschi blu, accusati di violenze sessuali.

Intanto, non lontano, anche le donne burundesi fanno le spese del rinnovato conflitto e nessuna risposta internazionale è finora attuata per parare al rischio di un nuovo genocidio. In tutti i conflitti le donne sono bersagli strategici: in Medio Oriente, dove Isis ha violentato, schiavizzato e trafficato le donne Yazide; tra i rifugiati in Europa, dove imperversa il trafficking; nei campi di sfollati nel nord dell’Uganda, in Darfur, in Sud Sudan, in Cecenia, in Ucraina, ovunque i conflitti armati frantumano la società e le sue regole, e le donne e i bambini divengono prede.

Nel contesto attuale di globalizzazione dei conflitti, va compresa l’urgenza di una riflessione informata su quanto occorra tempestivamente e collettivamente fare per mettere fine alle guerre nei paesi che ne sono colpiti, controllare gli inerenti flussi di rifugiati, armi e materie prime e prevenire il nostro coinvolgimento in forme di conflitto che sconvolgerebbero per sempre le nostre vite. Ma per il momento non si vede niente di intelligente all’orizzonte.

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