Tenere tre astici e due aragoste su un banco di mercato, fuori dall’acqua, appoggiati sul ghiaccio e con le chele legate costituisce maltrattamento di animali? Per un giudice onorario del Tribunale di Torino (sentenza del 15 luglio 2015) la risposta è, in sostanza, negativa trattandosi di un fatto di particolare tenuità. Ma, un anno prima (14 aprile 2014), per delle aragoste tenute vive nel frigorifero di un ristorante, il Tribunale di Firenze era giunto alla conclusione esattamente opposta.

Diciamo subito che si tratta di fattispecie diverse nei particolari e prescindiamo, in questa sede, da disquisizioni giuridiche sulla figura del reato applicabile (art. 727 o 544-ter del codice penale). Andiamo, invece, alla domanda di fondo. Sappiamo tutti che questi crostacei vengono tenuti in vita al fine di poter essere immersi, da vivi, nell’acqua bollente al momento che devono essere cucinati. Perchè – si dice – così sono più gustosi.

Si tratta o no di una “sevizia senza necessità”, come richiede la legge, specie se vengono tenuti fuori dall’acqua ed immobilizzati? Tanto più che, sempre secondo la legge, non si può mai considerare di particolare tenuità un reato in cui “l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie….”. Come già detto, sotto il profilo giuridico, possiamo parlarne a lungo. Ma ritengo che, a questo punto, il problema non sia affatto solo giuridico, ma soprattutto di sensibilità umana.

C’è chi, come il giudice di Torino, considera la questione del tutto irrilevante in quanto si tratta di “normali e diffuse tecniche di momentanea conservazione in ghiaccio…” , per cui “si può solo convenire su una rimproverabilità quasi simbolica”; e valuta “con stupore come la vicenda abbia coinvolto ben quattro agenti della Polizia Municipale e allertato un veterinario dell’Asl”. Ma c’è anche chi, come il giudice di Firenze, “posto che l’ordinamento riconosce la tutela del sentimento degli animali quali esseri senzienti, capaci di provare dolore e sofferenze, si deve stabilire se anche nel caso di crostacei, per consuetudine sociale destinati al consumo mediante cottura da vivi, sia possibile parlare di maltrattamenti”; e ritiene che “la consuetudine sociale di cucinare questi crostacei quando sono ancora vivi non esclude che le modalità di detenzione degli animali possano costituire ‘maltrattamenti'” e che “nel bilanciamento tra interesse economico e interesse (umano) alla non-sofferenza dell’animale, sia quest’ultimo a prevalere, in assenza di norme o di usi riconosciuti in senso diverso”.

E qui mi fermo, con una sola considerazione personale. So bene che, ogni volta che si parla di animali si solleva un vespaio, spesso con reazioni scomposte. So anche bene che, in questo particolare momento storico, mentre tanta gente soffre e imperversa l’Isis, parlare di maltrattamenti di animali può sembrare fuori luogo, se non ridicolo.
Eppure è mia ferma convinzione che il rispetto per l’ambiente e per l’uomo non può prescindere dal rispetto per gli animali: è il rovescio della stessa medaglia. E forse, in futuro, saranno in molti a ritenere, come me, che non è necessario far agonizzare un’aragosta per il piacere della nostra tavola.

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