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Cina, vietato parlare di Borsa. La crisi assente dai media di Stato

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borsacina675

“Le condizioni attuali dell’economia globale sono complesse e sconcertanti. Ci sono sostanziali fluttuazioni del mercato che si ripercuotono sull’economia cinese”. La surreale analisi è stata fornita ieri dal premier cinese Li Keqiang, dopo 48 ore di silenzio dal “lunedì nero”. Tradotto: scontiamo i problemi dell’Occidente. Tutto mentre il maxi rimbalzo dei mercati scattato dopo il nuovo taglio dei tassi d’interesse in Cina non bastava a far cambiare rotta alle Borse europee. Ieri, l’indice Stoxx 600, che riassume l’andamento dei principali listini Ue, ha chiuso a -1,75% con Parigi e Londra tra le peggiori (entrambe -1,4%), mentre Milano ha perso lo 0,81%; in rosso anche Francoforte (-1,29%), e pressoché invariata Atene (+0,1%). In mattinata, le Borse cinesi avevano chiuso di nuovo in territorio negativo (Shangai –1,3%).

Qual è stata la causa scatenate delle turbolenze? Per gli analisti è il rallentamento dell’economia cinese ma sui media del Paese, fortemente controllati dal governo, non ce n’è traccia. Anzi.

La sera del 24, quando la stampa internazionale apriva con il disastro finanziario che si propagava dalla Cina al resto del mondo, l’agenzia di stampa Xinhua, la televisione di Stato Cctv e il Quotidiano del popolo non facevano neanche accenno alle Borse. Le ricerche su Baidu, il motore di ricerca dell’ex Impero di mezzo, davano risultati parziali a cui si accompagnava il ben noto pop up che segnala che “alcuni risultati sono stati omessi per rispetto delle politiche pertinenti”. Stesso risultato sui social network cinesi. Alcuni media più indipendenti, davano la notizia in poche righe, senza affrontare la causa del fenomeno se non adducendo vaghe ragioni internazionali e alla “paura dei mercati che l’economia globale stesse per rallentare drammaticamente”.

Anche il giorno seguente, per il Quotidiano del popolo era come se non fosse successo nulla. In prima pagina lo straordinario sviluppo economico del Tibet e i preparativi per la grande parata militare per festeggiare i 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e la vittoria sul Giappone. Niente anche nell’edizione di ieri, dove un paio di articoli accennavano alla decisione della Banca centrale cinese di tagliare i tassi d’interesse (la quinta volta in nove mesi, ma questo non era specificato) e alla fiducia espressa dal premier sull’economia nazionale nonostante “la volatilità dei mercati globali”.

Intanto su alcuni siti specializzati sono filtrate le direttive diramate dalle autorità ai mezzi di informazione: cinque specifici articoli dovevano scomparire e in generale si vietavano “le speculazioni, le analisi approfondite e le interviste agli esperti”. Inoltre bisognava evitare di cavalcare sentimenti come panico e tristezza ed evitare parole dal contenuto fortemente emotivo come crollo e collasso. Il rispettato settimanale economico Caixin, ha confermato ieri che un suo giornalista è stato arrestato per aver scritto un articolo che non coincideva con la versione fornita dal governo.

Una dimostrazione che i vertici politici della Cina erano preoccupati tanto quanto quelli del resto del mondo, ma non avevano ancora deciso come muoversi e quale spiegazione fornire al popolo cinese e a quei 90 milioni di cittadini che avevano invogliato a investire nei mesi precedenti. Quando la bolla è esplosa per la prima volta a giugno, la macchina della propaganda li aveva invitati a continuare a comprare. Bisognava “assumersi il rischio per il bene del Paese”.

Il punto, oltre che economico, è politico. Il governo cinese ha investito credibilità e prestigio nel mercato azionario. Il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang hanno affermato a più riprese la volontà che il mercato azionario foraggi maggiormente la finanza d’impresa. Inoltre, le azioni messe in atto per tamponare la crisi sono l’antitesi dei loro proclami di inizio mandato, quando – per la prima volta nella storia della Repubblica popolare – hanno auspicato che le forze di mercato giocassero “un ruolo decisivo” nell’allocazione delle risorse. Per ora nessuna strada tentata dal governo ha ottenuto i risultati sperati. E l’unica opzione rimasta sembra essere quella del silenzio.

Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2015

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