Una parte del mondo dell’impresa, sin dagli anni ’70, critica la scuola: la competenza dei docenti, le metodologie didattiche, il livello dei nostri studenti. Valutazioni che nascondono tesi pericolose sul rapporto scuola-impresa e sul modello di competenza da offrire ai giovani. Mentre lo sciopero sulla riforma ha ricordato che, nonostante il gran legiferare, il sistema educativo continua a ricevere aggiustamenti formali e poche risorse, sono rimasto colpito da alcuni articoli apparsi sul Corriere della sera per la presentazione del libro La ricreazione è finita di Roger Abravanel e Luca D’Agnese. La diagnosi degli autori e di autorevoli esponenti  dell’economia è così riassunta: “La disoccupazione giovanile nel nostro paese ha cause ben più profonde e lontane della crisi economica. I ragazzi italiani non sono preparati al lavoro del ventunesimo secolo. E la scuola e l’università, con poche eccezioni, non riescono a insegnarlo”. Per risolvere il problema viene offerta la terapia delle cosiddette soft skill: “Meglio che i giovani acquisiscano approccio ai problemi, capacità di comunicare, intraprendenza piuttosto che imparare un mestiere, perché le aziende preferiscono essere loro ad insegnarne uno”.

A parte il titolo infelice (credo che i giovani non si siano accorti della festa!), le tesi del libro appaiono sbagliate nel merito e scorrette nei principi. A credere agli economisti, alla Bce, al governo, la storia è diversa: sono la mancanza di investimenti e consumi a generare disoccupazione. Una miopia cui si aggiunge una visione riduttiva della scuola e della sua funzione di apprendimento per le persone e i cittadini, accanto e dopo quella di preparazione al lavoro. Come diceva don Milani “la padronanza della parola distingue tra ricchi e poveri”. Forse gli industriali, che offrono soluzioni alla scuola, potrebbero concentrarsi più utilmente sul mestiere di un tempo, quello di intraprendere e di offrire lavoro. E insieme al governo trovare rimedi alla riduzione strutturale dell’occupazione che è stata solo accentuata dalla crisi.

In realtà sappiamo che è una tendenza di lungo periodo innescata dall’impatto dell’innovazione tecnologica sulle strutture di produzione. I bancari sono in eccedenza, così come i postini, e l’automazione dei caselli delle autostrade può essere facilmente aumentata, le stazioni di servizio self service sono in rapida crescita. In America stanno sperimentando aerei civili senza pilota. Di fronte a questo scenario una classe dirigente dovrebbe ragionare sul ripensamento del modello di organizzazione del lavoro e su come ridare la speranza ad una generazione. Invece dibatte su come si scrive meglio un cv!

Un’ultima riflessione: dirottare le persone dal mestiere è pericoloso per la loro sicurezza e forza negoziale sul mercato. I talenti saranno anche nel futuro persone che sanno far bene una cosa e  possiedono competenze hard, specifiche. Ne sono un esempio le previsioni al 2030 del governo inglese che parlano di ‘job’ non di competenze generiche. Qualunque sia il lavoro: carpentiere, digital strategist, maestro orologiaio, private banker, violinista,  cuoco. Le soft skill richiamano l’uomo flessibile del sociologo Richard Sennet: i panettieri di New York che essendo stati licenziati sapevano usare le icone e il mouse per produrre scarpe e non più le pagnotte! Ma in fondo, chi di noi per fare un tavolo ingaggerebbe un falegname solo perché creativo? E per farsi operare andrebbe da un chirurgo chiacchierone?

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