“Ora che Kathmandu è diventata una tendopoli a cielo aperto il primo timore è quello delle epidemie. Mentre acqua e cibo stanno già iniziando a scarseggiare. Credo che dopo una decina di anni sarò costretta a lasciare il Nepal”. Quando Barbara Monachesi racconta di voler andarsene dalla terra colpita dal violento terremoto del 25 aprile, lo fa con voce rotta dal pianto. “Non vorrei abbandonare questo paese ma ho due bambine, Tara e Maya, di cinque e due anni e mezzo. Ora che gli ospedali non accettano più nessuno, come posso sentirmi sicura a restare qui con loro?”. Monachesi è la referente nepalese della onlus Apeiron. Dopo una carriera come avvocato, dal 2007 ha eletto Kathmandu a nuova patria, seguendo progetti in aiuto di donne e minori. Quando il terremoto ha sconvolto il Nepal, Barbara si trovava in casa con le sue due figlie. Lo choc e la paura non l’hanno fatta uscire per tre giorni. Poi la sua prima passeggiata per la capitale, per incontrare una città trasformata in un susseguirsi di rifugi di fortuna.

Nessuno vuole più dormire in casa, anche perché il Nepal continua a tremare per scosse minori, ma non si vuole neppure andare nei (pochi) campi per sfollati per paura dello sciacallaggio. “Ovunque spuntano teli di plastica prima usati per coprire i veicoli. Sotto prendono fiato mamme, bambini, spesso intere famiglie – racconta Barbara – e intanto la terra diventa fango, perché in Nepal la pioggia è incessante, e chi deve curarsi non tenta neppure di andare all’ospedale: tanto non sarà accettato”. Con oltre 7mila feriti, sembra infatti che le strutture ospedaliere nepalesi non abbiano retto il colpo. “Il fratello di una mia collega si è rotto il braccio durante il terremoto, lanciandosi giù da un palazzo mentre crollava. Solo dopo tre giorni è riuscito a farsi fare un gesso – continua la referente nepalese di Apeiron – in tutti gli ospedali mancano letti e personale”. Fuori resta una folla di persone.

In un paese dove l’acqua potabile non esiste e i black out di dodici ore sono all’ordine del giorno, sta iniziando a diffondersi anche la paura per l’approvvigionamento di acqua e beni primari. “I negozi sono chiusi e temiamo che gli aiuti arrivino troppo tardi”. Intanto, sul tema “aiuti umanitari” in questo momento regna il caos. È di martedì 28 aprile la prima riunione tra alcune delle onlus italiane che lavorano a Kathmandu. “Stiamo cercando di capire chi è sul posto per dare aiuti, ma le informazioni sono quasi inesistenti. Passata la paura, il vero timore sarà che il paese stenterà a rialzarsi proprio a causa di un mancato coordinamento sugli aiuti. In assenza di un governo operativo forte, infatti, non sappiamo chi prenderà in mano la situazione”.

Viste dal Nepal, le cifre delle vittime segnalate sui media internazionali sembrano poco credibili. Si parla di oltre 5mila morti, ma “non ci si rende conto quante aree del paese siano ancora completamente inaccessibili. Dopo oltre tre giorni, per esempio, non siamo ancora riusciti a metterci in contatto con uno dei villaggi che seguiamo nel distretto del Dhading superiore perché l’unico modo per raggiungerlo è fare 16 ore di cammino su un mulo”. Quando il premier Sushil Koirala precisa che “i morti potrebbero essere 10mila”, lo fa pensando proprio alle zone inaccessibili del paese. E secondo Barbara Monachesi, “potrebbe drammaticamente avere ragione”.

Passeggiando per le Durbar Square nepalesi non rimane nulla. Al dramma delle vittime del terremoto, si aggiungono i danni agli edifici della valle di Kathmandu, che racchiudeva sette siti inseriti nella lista dell’Unesco. Ora a templi hindu e stupa si sono sostituite macerie. “Tutti i principali monumenti sono stati rasi al suolo. Il Nepal vive principalmente di turismo: non so come riuscirà a rialzarsi”. E dopo anni di vita a Kathmandu, Barbara e suo marito nepalese stanno pensando di trasferirsi in Italia. “Temiamo per le nostre bimbe: il sistema sanitario è al collasso, le scuole chiuse, e oltre allo choc del terremoto dovrebbero vivere anni e anni di ricostruzione del paese. Non vorremmo lasciare il Nepal, ma il timore è che questa terra resti ancor più abbandonata”.

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