Il suo teatro è spiazzante, provocatorio, oscuramente onirico e destabilizzante per chi è abituato solo al teatro “tradizionale”, di narrazione ma Romeo Castellucci e la sua avanguardista Socìetas Raffaello Sanzio vantano stuoli di appassionati spettatori in tutto il mondo, pronti ad accorrere ad ogni loro spettacolo/evento oltre a svariati premi raccolti tra cui diversi UBU e il Leone d’Oro alla carriera della Biennale Teatro di Venezia. A quest’arte e al co-fondatore della compagnia (assieme alla sorella Claudia e alla moglie Chiara Guidi) che ha contribuito a cambiare profondamente il modo di pensare e di fare il teatro nella nostra epoca, l’Università di Bologna ha conferito la laurea ad honorem in Discipline della Musica e del Teatro. Un importante riconoscimento di cui, nel corso dei decenni, sono stati insigniti pietre miliari del teatro come Mater Jerzy Grotowski, Eugenio Barba, Luca Ronconi e Pina Bausch. Romeo Castellucci, ha realizzato spettacoli come regista, ideatore di scene, luci, suoni e costumi, oltre ad essere autore di scritture di teoria che percorrono il cammino del suo teatro. Tra i suoi spettacoli il lungo ciclo della “Tragedia Endogonidia”, “Amleto. La veemente esteriorità della morte di un mollusco”, “Orestea” e il recente “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”, contestato perché accusato di blasfemia. Invitato a tenere un incontro dall’Accademia di Francia a Roma con gli allievi dell’Università La Sapienza, Castellucci parla della sua visione di teatro e in particolare, delle immagini di cui si nutre. Nei suoi spettacoli le immagini contano più della parola, di cui sono spogli. Sembrano emergere davanti allo spettatore come una cosa naturale ma in realtà sono legate a quelle della storia dell’arte.

Qual è relazione?
Derivano dalla storia dell’arte, sono iconografiche. C’è un rapporto con un database infinito di immagini, anzi finito perché non credo sia più possibile inventarne delle nuove. Quelle che affiorano sono colte, appartengono ad altri artisti che le hanno fissate su tela o pietra. E’ inevitabile data la mia cultura, la mia provenienza, il paese in cui sono stato gettato: l’Italia, dominata dal cattolicesimo. Non c’è solo una dimensione alta dell’immagine, ma anche banale, come quelle che si vedono in forma anonima per strada o in tv. Dunque c’è il riferimento alla pittura ma non solo.
Come le sceglie, perché la colpiscono?
Sono immagini che non invento ma passano dentro me in quanto spettatore. Cerco solo di essere attento, stare in ascolto. Inventare delle immagini non è più possibile, cerco di farle penetrare in me per osmosi, mi faccio colpire e questo risuona anche nella mente dello spettatore che è a sua volta coinvolto. Le immagini lo colpiscono sotto la cintura, si riconoscono, c’è una dimensione che si accende. Ci si sente chiamati da un’immagine che può essere giusta o sbagliata. Quelle sbagliate sono moltissime, quelle giuste ti rapiscono e portano via e si riflettono nella quinta parete per arrivare allo spettatore, che è a sua volta parte del processo creativo. Sono linee che si incontrano più tardi, impongono un tempo.
Cosa intende per immagini sbagliate?
L’immagine sbagliata è un illustrazione. La prima è tridimensionale, ha uno spessore e una vita propria, lo spettatore ne è immerso. L’illustrazione è bidimensionale, non ha a che fare con te, non ti accoglie, non ti chiama.
Perché sostiene che non sia più possibile inventare immagini?
Perché la storia ne è satura e non ci sono condizioni per generarne di nuove. Non c’è una dimensione di scoperta, è stato scoperto tutto. Possiamo solo cercare un modo nuovo di guardarle, di combinarle, di montarle.
Vale anche per i messaggi? Tutto è già stato detto…
Forse sì ma il compito essenziale del teatro non è mai stato quello di dare messaggi. Basta pensare alle tragedie greche o ad Amleto, cosa vogliono dire? Ci vogliono centinaia di messe in scena per sondarne il mistero. D’altronde non è compito del teatro dare messaggi univoci. L’esperienza dell’arte è fondata su questo senso di indeterminazione e anche sulla capacità dello spettatore di formare le proprie connessioni, i propri significati personali.
Il teatro è in crisi sotto questo punta di vista?
La crisi del teatro è nella la separazione tra la capacità di nominare le cose e le cose stesse. È un campo di battaglia con e contro il linguaggio ad ogni livello. Non è un atteggiamento avanguardistico. La crisi nasce dal sospetto nell’uso del linguaggio. Bisogna anche essere in grado di togliere le anestesie della scuola e perdere il controllo, la vigliaccheria. Bisogna capire come controllare e come abbandonarsi. Abbandono è una parola meravigliosa. La storia dell’arte occidentale insegna a cambiare punti di vista. La vera politica è cambiare il punto di vista sulle stesse cose.
L’esperienza puramente estetica del teatro può essere considerata una visione politica del teatro?
La natura del teatro è politica perché è il luogo dello sguardo e lo sguardo, specialmente in quest’epoca, è carico di responsabilità. Il teatro è vedersi e vedere, è una presa di coscienza su ciò che stiamo guardando, non importa cosa. Oggi è diventato un atto gravido di conseguenze. Si spostano delle cose guardando e l’esperienza dell’arte in generale recupera questo gesto a cui si richiede radicalità. Non si tratta di una comunità di persone elette e non rimane nulla se non un momento condiviso con sconosciuti anonimi. Io mi sento solo ma posso condividere questa solitudine e quello che stiamo vedendo.
Perché oggi osservare è un atto di responsabilità maggiore?
Sono state prodotte delle guerre, si tagliano delle teste per produrre immagini e far sì che vengano guardate. Osservare non è più un atto è innocente, ingenuo come un tempo perché oggi muove delle cose. Lo sguardo è iper-sollecitato.
E’ giusto guardare o diffonde quel tipo di filmati?
No. Io non ce la faccio, quelle non sono immagini, sono segni di una violenza inaccettabile. Anche il teatro si fonda sulla violenza ma di un’altra natura, che è falsa. Il sangue versato sul palcoscenico è universale, eucaristico, è (metaforicamente) dello spettatore.
La Raffaello Sanzio ha sempre puntato sulle immagini, non sulla narrazione. Una scelta rischiosa che allontana anche del pubblico…
Il rischio è una buona notizia, io lo trovo un vantaggio. L’oggetto è buttato nella mani di chi vuole farne qualcosa, io mi auguro cada e si rompa in mille pezzi perché vuol dire lasciare un segno. Se nei miei spettacoli il pubblico capisce altro da ciò che voglio dire va benissimo, perché influiscono la memoria, il vissuto e le cicatrici di ognuno di noi. Colui che mette insieme i pezzi è lo spettatore, l’artista lo è solo relativamente. Io lavoro con le immagini a patto di superarle. Quando si dice che faccio teatro di immagine è vero e non lo è allo stesso tempo.
I vostri spettacoli sono molto riconoscibili, c’è un citarsi costante?
La riconoscibilità è una debolezza, una malattia. È un limite che molti artisti hanno. Il fatto di essere riconoscibile mi dà fastidio. É l’atteggiamento di attacco che mi infastidisce. O cambio strategia o è meglio fermarsi, lo dico in modo sereno. Mi piacerebbe moltissimo spiazzare in continuazione, non per il gusto di farlo ma per non esserci in ciò che si vede. Vorrei scappare, altrimenti è come mettere su una casa mentre il teatro è di tutti.
Come descriverebbe il teatro?
Come il luogo dove si duplica la vita. Si dissolve esattamente come la nostro esistenza, non rimane nulla. Ha molto a che fare con la fragilità.

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