In un post precedente ho svolto alcune considerazioni sulla cattiva qualità dei test di ammissione che il Miur prepara per i corsi di Laurea ad accesso programmato. Un cattivo test lascia un certo margine alla fortuna e può scartare uno studente che ha ottenuto un punteggio di 40, ma avrebbe potuto ottenere 41 se fosse stato più fortunato, a vantaggio di uno che ne ha ottenuto uno di 40,25 ma che avrebbe potuto ottenere 39 se fosse stato meno fortunato. Questo errore ha grande rilievo per le ambizioni di due persone, ma dal punto di vista statistico non crea una grande differenza perché i due candidati sono più o meno equivalenti. Il vero difetto di un cattivo test, però, non sta tanto nell’accuratezza dei risultati o nella scarsa precisione della misura, ma nel fatto che ci fa dubitare della sua validità, cioè della sua capacità di selezionare effettivamente i candidati più idonei.

La teoria dei test considera vari tipi di validità, ma quelli più rilevanti in questo contesto sono essenzialmente due: la validità di costrutto (il test misura effettivamente le variabili che intende misurare?) e la validità predittiva (il test seleziona persone che hanno poi una carriera studentesca e professionale soddisfacente?). Il test misura capacità logiche e mnemoniche nell’assunzione che le capacità richieste per ottenere un buon punteggio siano le stesse necessarie per usufruire con profitto del corso di studi: può sprecare un quarto della scala di valutazione con domande astruse, ma se fa buon uso dei tre quarti rimanenti può ancora essere valido. Se il suo fine è selezionare studenti che abbiano la massima probabilità di completare con successo il corso di studi e di diventare validi professionisti, minimizzando gli abbandoni, la sua validità predittiva e di costrutto sono misurabili.

Purtroppo, mentre l’adeguatezza del test rispetto alla popolazione testata si può valutare dai risultati ottenuti, determinare le validità di costrutto e predittiva richiede esperimenti esterni al test, abbastanza impegnativi. In pratica è necessario correlare il punteggio ottenuto al test con l’intera carriera dello studente e sarebbe anche utile reclutare in aggiunta ai candidati che ottengono i punteggi più alti un piccolo numero di candidati estratti casualmente tra gli esclusi (questo però non si fa mai, per ragioni etiche). Uno studio di questo tipo è stato effettuato per i test di ammissione delle Facoltà di Ingegneria che aderiscono al Cisia (Consorzio Interuniversitario Sistemi Integrati per l’Accesso) e i dati raccolti (per il Politecnico di Torino) hanno mostrato una significativa correlazione tra punteggio del test di ammissione e risultati nella carriera studentesca: punteggi alti al test correlano con voti alti agli esami, Laurea nei tempi previsti, basso rischio di abbandono. E’ importante notare che il test di ammissione di Ingegneria presenta lo stesso difetto già considerato per quello di Medicina, cioè la cattiva distribuzione dei punteggi, con la parte alta della scala di valutazione sostanzialmente spopolata; inoltre il punteggio del test di ammissione ha una correlazione molto debole con il voto di maturità. Uno studio analogo è in corso per i Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia. Giova anche ricordare che a Medicina il tasso di abbandono precedente all’adozione del numero chiuso era di circa il 70% mentre quello attuale è inferiore al 30%.

Sembra quindi che i test di ammissione, sebbene alquanto inadeguati, abbiano ciononostante una buona validità predittiva e di costrutto, ed è sicuramente giustificato sia cercare di migliorarli che monitorare costantemente la correlazione tra il punteggio in ingresso e la carriera universitaria fino alla Laurea. Sarà sempre possibile argomentare che i dati raccolti finora sono insufficienti per dare una valutazione definitiva; ma per il momento il nostro provvisorio giudizio è che il test di ammissione all’università, pur coi suoi ovvi difetti, non funziona poi così male.

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