Torna Petrina con un disco che ha il suo nome. Torna questa viandante della musica che da Cage, Bussotti e Feldmann passeggia sino al jazz e al pop, in punta di piedi, o scandendo bene la marcia: Petrina, sempre in compagnia delle sue tastiere.

La musica prende distanza da se stessa e si osserva, si fa ironica (sì, lo so che l’ironia, stricto sensu, non è categoria musicologica, ma tant’è), recita, si atteggia, parla, sillaba, si distende, soffia, fa attrito. Dice.

E quando la melodia arriva (e arriva) è respiro che libera e strappa un sorriso, per farlo morire un attimo dopo, grazie all’asprezza del suono dissonante dov’è celato il senso irrinunciabile del brano.

Perché non c’è senso senza un po’ di sforzo, senza un agire, un agire anche nostro, anche se noi siamo abituati a limitarci ad ascoltare e non ad agire ciò che ascoltiamo.

Ma il pianoforte di Petrina batte dove il dente duole, e ci costringe a pensare al senso dei suoni e al loro mescolarsi con parole spesso limatissime, ma sempre essenziali e semplicissime, in cui il quotidiano eliotiano si mischia alla fiaba e alla cronaca da Terzo millennio (ma le rime nei testi di Petrina ci sono prima di tutto per suonare le percussioni e per mandarle fuori tempo), alla citazione, o sin alla forma di “contrasto a distanza” della sua splendida Lina con la già nota Nina di Bertelli, veneta tanto quanto Lina. Ma arrivata da noi un’era dopo. Quando di petèl non c’è più traccia, né di filò, ma neanche delle fabbriche e dei capannoni di Val Piave e ormai persino la povertà è diversa.

Arrivata da noi, un mondo dopo, a ricordarci un atto di disobbedienza sentimentale, perché è sempre illegale l’amore. E ciò che appena adesso sembra jazz in un attimo si metamorfosa in rock, in progressive, in noise, o industrial, in pop, o in contemporaneo. È Musica-Fregoli quella di Petrina, fatta di cento maschere diverse che sono lì soltanto per mostrarci il loro vero volto. Così scopriremo che stiamo guardandoci allo specchio. Che, in fondo, Petrina siamo noi.

E spesso a suonare sono le voci, non solo quella solista di Petrina, ma proprio borbottii, voci altre, radiofoniche, valvolizzate o “domestiche”, che arrivano e spariscono, transitano, lasciando scie di senso, fanno tessuto sonoro, come fossero la barthesiana grana della voce. O abbaiano, starnazzano, esplodono in forma d’artifici sonori luminosissimi e penso, ad esempio, a Vita da cani.

Come se a suonare con lei, con Petrina, in anonimo, nascosto al fondo dei suoi arrangiamenti architettonicamente curatissimi, ci fosse anche Henri Chopin, il poeta che più d’ogni altro ha destrutturato la parola in voce e la voce in fiati e salive. E in realtà di voce c’è quella distorta e “vinilizzata” di David Byrne, primo e prestigioso estimatore oltreatlantico della Nostra.

Petrina mette in campo, in questo secondo cd, tutta la sua cultura musicale, che non è solo vastissima, ma è viva e pulsa, è benzina e potenza sonora di un mix in cui l’unplugged, si mescola all’elettrico e a un’elettronica che fa guerriglia, disturbante, quasi che l’armonia – come la libertà – non fosse che nel conflitto. Petrina suona il corpo, prima ancora che il pianoforte. Dice di corpi, perché l’io è – leopardianamente – solo corpo…

La voce fa trenodia, litania, fiaba, la voce fa tessuto e lana e vetro in schegge, è sempre un po’ di più di ciò che dice. Ad accompagnarla la chitarra sempre opportuna e sapiente di Mirko Di Cataldo, o quella, impeccabile, di John Parish, come nella splendida Princess.

Parole che suonano, suoni che parlano. È Petrina che ci parla, che ci suona, che ci guarda. Che si guarda. E sorride con ironia.

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