Dopo Renzi, anche Angelino Alfano ha proposto il suo piano per il lavoro, con gli esiti che non è difficile prevedere. Punto e a capo, se ne farà poco o nulla, per tutta una serie di motivi, ma il più importante è che troppe cose dovrebbero cambiare in Italia perché il mercato del lavoro e dei salari possa tornare a funzionare. Quindi, visto che nessuno avrà né la forza né la voglia di usare il bisturi in un mercato distorto, fondato sui privilegi e sostanzialmente iniquo, tutto resterà come prima, anzi ci sarà da ringraziare il Padreterno se non arriveranno sotto mentite spoglie interventi peggiorativi alla Fornero.

Il punto fondamentale sono le retribuzioni, che sono troppo basse e inique, e gli accessi al mondo del lavoro, che sono svincolati da qualsiasi criterio oggettivo. Di questa situazione il primo a trarne danno è il mercato, che non funziona. Gli individui certamente, ma nessuno può dire che in Italia il mercato funzioni. Se l’ingresso al mondo del lavoro non dipende dalla preparazione e dalla qualificazione; se i salari non compensano il lavoro e la produttività, ma sono funzione del ruolo redistributivo all’interno di un sistema distorto e distorsivo, è chiaro che il mercato – che già di suo non è perfetto – non può trarne giovamento. E anche i bambini sanno che l’inefficienza non genera ricchezza e benessere collettivi. Ergo, è molto difficile pensare di uscire dalla crisi senza rovesciare il mercato del lavoro come un calzino.

Personalmente diffido come la peste quelli che in Italia parlano di meritocrazia. Sulla bocca di alfieri alla Gelmini, alla Giavazzi o alla Zingales, queste parole si traducono invariabilmente in forme più o meno occulte per consolidare i privilegi di chi già ha il potere e costringere alla guerra selvaggia i peones privi di padrini. Però resta il fatto che il merito e il riconoscimento del lavoro e dell’impegno dovrebbero essere più diffusi da noi, perché  non c’è maggiore meritocrazia che quella che si traduce in salari adeguati al ruolo produttivo e alla preparazione. Il limite di 40/50 volte nella differenza tra la retribuzione minima e quella massima in un’impresa qualsiasi non è un’aspirazione socialista, ma un dato oggettivo meritocratico. Che le raccomandazioni o le parentele non siano il criterio principale per le assunzioni, ma lo siano le capacità e sopratutto la preparazione scolastica, non è un sogno comunista, ma il desiderio legittimo di una società che per convivere deve fondarsi su criteri generali comunemente condivisi.

Per giungere a un mercato più efficiente, per incrementare il nostro benessere quindi è necessario prima di tutto mettere ordine nelle retribuzioni e nelle modalità di accesso al mondo del lavoro. E tale processo – in linea teorica, all’interno di un sistema efficiente – dovrebbe realizzarsi attraverso una pressione naturale degli individui, grazie alle scelte economiche e politiche degli stessi soggetti interessati. La politica non dovrebbe fare altro che recepire queste istanze e darci forma di leggi. Se questo però – come vediamo da decenni – non accade, bisogna trovare altre strade.

Se la democrazia, in Italia come in molti altri paesi capitalisti, è divenuta l’abito con il quale continuare a rafforzare i privilegi di pochi potenti a danno degli interessi e del benessere delle moltitudini – in barba al riconoscimento del reale ruolo in termini di produzione della ricchezza collettiva – allora qualcosa bisogna pur fare. Se la democrazia non riesce a perseguire gli interessi delle maggioranze, qualcosa non funziona e va corretto. Tutti desidereremmo che il mercato del lavoro in Italia si «autoregolasse», ma forse questa è una pia illusione, stanti le pressioni e i condizionamenti che ristretti, ma forti gruppi di potere continuano ad esercitare per impedirne i risultati a loro dannosi. E se il mercato non si «autoregola», allora la politica deve intervenire, nel nome di quella rappresentanza popolare che non può essere disattesa all’infinito. Prima o poi qualche politico, qualche gruppo politico, attraverso la tassazione, attraverso nuove leggi, dovrà ristabilire un minimo di efficienza, equità e funzionalità al mondo del lavoro in Italia. Questa è la prima riforma che ci attendiamo dagli aspiranti «rinnovatori».

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