Il vecchio Gianni Agnelli è rimasto celebre per questa affermazione: “Quello che va bene per la Fiat va bene per l’Italia”. Difficile capire se la frase sia ancora valida. Certamente, a giudicare da quanto avvenuto ieri in Borsa, quello che va bene per la Fiat va bene per i suoi azionisti. Dopo l’accordo di capodanno tra l’azienda e il sindacato americano Uaw sull’acquisizione del 100% della Chrysler, il titolo del Lingotto è letteralmente schizzato segnando un più 16%. Logico, che il patron dell’azienda, John Elkann, abbia voluto celebrare la giornata inviando, insieme a Sergio Marchionne, una lettera personale ai 300 mila dipendenti del gruppo Fiat-Chrysler democraticamente definiti “colleghi”.

“L’emozione con cui vi scriviamo – scrivono Elkann e Marchionne – è quella di chi negli ultimi quattro anni e mezzo ha lavorato per coltivare un grande sogno e oggi lo vede realizzato”. L’unione delle due società rappresenta “un momento epocale nella storia di Fiat e di Chrysler”, che avvia “un nuovo capitolo di storia comune da scrivere”. La soddisfazione trasuda da ogni riga accompagnata dalla lettura dei giornali di mezzo mondo i quali hanno dato la notizia con il massimo rilievo.

Il successo dell’operazione viene sottolineato anche dai commenti casalinghi dove la politica, tranne qualche eccezione, è tutta schiacciata su Marchionne. Sul fronte sindacale, il segretario della Cisl Bonanni rivendica parte del merito anche alla sua organizzazione, mentre Susanna Camusso, segretario della Cgil, plaude all’operazione “di grande rilevanza” ma allo stesso tempo ritiene indispensabile che “Fiat dica cosa intende fare nel nostro Paese”. E qui torniamo all’affermazione iniziale. Quel che è bene per la Fiat è davvero buono anche per l’Italia? Il Lingotto tiene per il momento le carte coperte sulle prossime mosse e, in particolare, sul progetto di fusione tra Fiat e Chrysler che avrà, come corollario simbolico ma non privo di importanza, anche la collocazione della sede legale: a Torino o a Detroit? Le mosse compiute finora rendono inevitabile la strada della fusione e il Financial Times sostiene che la quotazione avverrà a New York entro quest’anno.

A far da riferimento è il modello seguito per Fiat Industrial. Nel 2011 la Fiat ha scorporato il settore automobilistico da quello industriale incorporato poi nell’olandese Cnh. Questa, l’unica a essere quotata, ha la sede legale in Gran Bretagna e solo il 7,9% del fatturato prodotto in Italia. Lo stesso destino si annuncia per l’auto. Come ha notato il Wall Street Journal, però, i problemi sono tutti aperti: “Il trucco usato con Chrysler” scrive il quotidiano finanziario, “non è una panacea”. Il sindacato è stato liquidato attingendo alle risorse aziendali e la Fiat resta la casa automobilistica europea con il debito più elevato. Che è anche piuttosto junk, cioè spazzatura. Come afferma la banca Citigroup, “continuiamo ad avere preoccupazioni sulla sostenibilità del debito”.

Il nuovo gruppo, il settimo su scala mondiale, dovrà inoltre disegnare la sua strategia in un mercato che cresce soprattutto in Asia e in America. Se la tedesca Volkswagen è riuscita ad affrontare le difficoltà differenziando la produzione soprattutto verso la Cina, la Fiat lo ha fatto grazie agli Usa. Ma, a differenza dei tedeschi, il successo americano è dipeso da due fattori troppo spesso dimenticati. Il primo riguarda la politica industriale di Obama che è il vero protagonista del salvataggio dell’automotive. È vero che i 10 miliardi di dollari messi sul piatto dal governo Usa e da quello canadese sono stati via via restituiti dall’azienda di Sergio Marchionne, ma senza quella dotazione iniziale l’impresa non avrebbe potuto essere pensata.

Il secondo fattore chiave è il sindacato Uaw il cui contributo è stato decisivo nel salvataggio di Chrysler. Il sindacato, infatti, ha accettato condizioni proibitive pur di non perdere la fabbrica: riduzione del 30% del costo del lavoro con una paga oraria passata dai 75 dollari del 2006 ai 52 del 2011. Oltre a questo, l’accordo con la Fiat, propedeutico al prestito del Tesoro americano, prevedeva l’aumento dell’orario di lavoro, la riduzione delle pause, il dimezzamento del salario per i nuovi assunti, l’assenza di scioperi fino al 2015, l’introduzione del nuovo modello lavorativo World Class Manifacturing e, in particolare, la fuoriuscita dall’azienda di circa 28 mila lavoratori. Un salasso che è stato ripagato con la restituzione di circa 9 miliardi di dollari rispetto ai 10 di cui l’Uaw era creditore all’inizio della crisi. Un contributo senza il quale la “magia” di Marchionne non esisterebbe.

da Il Fatto Quotidiano del 3 gennaio 2014

Articolo Precedente

Banche e imprese, un anno di agonia per i poteri forti italiani

next
Articolo Successivo

Fiat, ecco perché punta sui Paesi sbagliati. E gli italiani restano con il cerino in mano

next