Sono le quattro del pomeriggio di un lunedì, esco dal cancello di una scuola materna di Roma tenendo per mano mio figlio e adocchio le automobili ammassate sul marciapiede. Vedo genitori che caricano i loro figli, i più li fanno sedere sui seggiolini e sugli adattatori fissati sui sedili posteriori, richiudono la portiera senza allacciare loro la cintura di sicurezza e salgono al posto guida.

Vedo un bambino che salta giù dal seggiolino e prova a infilarsi nello spazio tra i due sedili anteriori, la madre non fa niente per impedirglielo, ha fretta, mette in moto e parte. Un altro, avrà quattro anni, sale davanti. La macchina del padre è un gigantesco Suv bianco. Il ragazzino, ritto sulle alture di quel mostro tecnologico, assume un’espressione onnipotente. Io e mio figlio proseguiamo lungo il marciapiede, o sarebbe meglio dire lungo quella strozzatura che rimane libera dalle ruote delle automobili.

Mi metto a contare le macchine (Suv e non Suv) su cui salgono i genitori con i loro pargoli, ne conto quindici. Su queste quindici macchine salgono quindici bambini. Conto quanti, tra questi, vengono legati con le cinture di sicurezza. Ne conto due. Tredici genitori su quindici viaggiano a spregio delle regole del codice stradale e dell’incolumità dei propri figli. Sembra una cosa da poco, ma osservare gli esseri umani mentre trasferiscono ai loro discendenti il proprio modello di civiltà è uno spettacolo agghiacciante.

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