Con questo post si conclude (almeno per ora) la Trilogia sul Ritorno alla Lira inaugurata oltre un mese fa.

In un mondo in cui chiunque sia in grado di usare un mixer e cambiare cd da un lettore (o i vecchi Lp da un piatto) si spaccia per artista, vergandosi con un nome preceduto dalla sigla dj, non vale scandalizzarsi se in virtù di un grafico qualcuno aspiri a ritenersi la reincarnazione di Keynes.

Analogamente a chi scatena le turbe nei rave, dj Keynes scatena turbe (psichiche) in quel rave cibernetico che frulla blog, commenti, sms, Twitter, Storify, Facebook, Google+ e Mi Piace. Ne emergono credenze messianiche tipo che l’Argentina viva un miracolo economico e sarebbe il modello ideale per l’Italia; che l’Islanda abbia rifiutato l’intervento del Fondo Monetario; che le banche centrali (inclusa quella argentina, iraniana, cubana o venezuelana) siano gestite da privati (i quali “posseggono” la moneta, inclusa quella che staziona nel vostro portafoglio); che il debito pubblico italiano sia colpa del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro (Andreotti e Craxi invece erano la reincarnazione di Quintino Sella e Cavour); che l’euro ha “avvantaggiato” i Tedeschi e soprattutto che senza la moneta unica l’Italia sarebbe un’economia competitiva (pertanto se la Sicilia adottasse il Dinaro della Trinacria sparirebbe d’incanto la mafia e risorgerebbe Falcone).

Il drappo rosso che scatena i Miura delle Bungalire è la perdita di competitività attribuita all’introduzione dell’euro. Ignorando gli zoccoli taurini che raspano nervosi la tastiera, proviamo a verificare un aspetto chiave della competitività, che rimarrebbe inalterato con le Bungalire: la pressione fiscale. Sfiziamoci ad aprire il volumetto “Taxation Trends in the European Union”, edizione 2013 uscito lo scorso maggio, che riporta i confronti tra tutti i paesi Ue sulle entrate e le uscite pubbliche con dati aggiornati al 2011. A pagina 84 troviamo la tabella sulla struttura degli introiti e delle spese pubbliche per la Germania e a pagina 100 l’analoga pagina per l’Italia.

Iniziamo dalle imposte indirette che tengono banco in Italia in questo periodo con la Barzel-Letta sull’Iva. In Germania raggiungono l’11,5% del Pil, mentre in Italia il 14,4%. Quanto all’altra imposta su cui si accapigliano in Tv, cioè l’IMU, in Germania le tasse sulla proprietà son lo 0,9% del Pil mentre in Italia sono una quota doppia, il 2,1%.

Poi ci sono le imposte dirette sul reddito che in Germania incidono per l’11,6% del Pil e in Italia per il 14,8% mentre per il reddito d’impresa le percentuali si equivalgono, 2,6% del Pil per i nostri concorrenti contro il 2,3% del Belpaese. Tirate le somme, in Germania le entrate equivalevano nel 2011 al 38,7% del Pil, mentre in Italia al 42,5%.

Se andiamo a guardare le aliquote effettive (ricavate in base a quanto effettivamente pagato al netto di detrazioni, elusione, cavilli ed evasione) troviamo alcune sorprese. Le tasse sul consumo (sezione F) in Germania erano nel 2011, il 20,1%, mentre in Italia il 17,4% (prima dell’aumento dello scorso anno).

La differenza più marcata però si riscontra nelle imposte effettive sui redditi da capitale, che in Germania nel 2011 stazionavano al 22,0%, mentre in Italia toccavano il 33,6%, ben 11,6 punti percentuali di differenza. E se gli imprenditori italiani piangono i lavoratori dipendenti non ridono: in Germania si paga il 37,1% sul reddito da lavoro mentre nel Belpaese si spremono oltre 5 punti in più, vale a dire il 42,3%. Insomma, ceteris paribus, anche con le Bungalire la competitività italiana sarà comunque trascinata in basso dai differenziali di tassazione e non sarà certo la furbizia lazzaronesca della svalutazione permanente a farci risalire la china.

Come si sottolinea da alcuni decenni, i problemi dell’Italia sono strutturali. Il debito pubblico è il modo con cui una classe politica corrotta e incapace si abbarbica al potere comprando consenso a spese delle generazioni future, sguazzando nei vizi e nell’illegalità permanente. Se non si affronta questo nodo, neanche il ritorno al sesterzio eviterebbe il disastro.

La spesa pubblica è uno degli aspetti fondamentali ma non l’unico. Il mercato del lavoro è altrettanto cruciale. Ecco come pone la questione un brillante economista che l’ha affrontata sin dal 1997 quando divulgò il risultato delle sue analisi in questo rapporto (pag. 14): “Queste analisi […] individuano la causa della disoccupazione europea non tanto in una deficienza di domanda aggregata, quanto nella presenza di rigidità istituzionali che impongono agli imprenditori di compensare le oscillazioni della domanda determinate dalle fasi cicliche di espansione e di recessione senza variare l’impiego di forza lavoro [immagino alla Camusso starà fischiando nelle orecchie la Mazurka dell’art. 18, nda].

“Dalle analisi riportate risulta inoltre che la soluzione del problema della disoccupazione europea va cercata non tanto in politiche di espansione della domanda (le quali, tra l’altro, rischiano oltre certi limiti di confliggere con l’obiettivo di stabilità dei prezzi che costituisce uno dei cardini della costituzione economica dettata dal trattato di Maastricht), quanto in politiche di incremento della flessibilità del mercato del lavoro”.

“Maggiore successo potranno avere politiche di riforma e di armonizzazione delle legislazioni comunitarie in materia di istruzione, lavoro e previdenza sociale, volte a favorire effettivamente la mobilità del fattore lavoro e la flessibilità del suo impiego”. 

E chi sarà mai questo autore, scettico sugli effetti dell’espansione della domanda e giustamente preoccupato della stabilità dei prezzi, “cardine” del trattato di Maastricht? Cari lettori, trattasi del Professor Alberto Bagnai.

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