Ancora non si sa cosa possa accadere ma una cosa è per lo meno certa: negli uffici della Federal Reserve tira aria di riforma regolamentare e per le major di Wall Street non mancano i motivi di preoccupazione. La storia è cronaca degli ultimi giorni e l’argomento è più che mai caldo. Sul tavolo dei regolatori ci sono infatti niente meno che le commodities, ovvero il grande business delle materie prime. Dopo dieci anni di politica permissiva che ha concesso agli istituti di credito di operare nel settore, la Banca centrale statunitense starebbe infatti pensando ad un giro di vite imponendo alle major finanziarie di disinvestire da un business particolarmente redditizio.

Negli ultimi 5 anni le dieci principali banche del mondo hanno dato vita a un giro d’affari di quasi 50 miliardi di dollari nel comparto delle materie prime. L’anno scorso, i ricavi della top ten degli istituti sono stati di circa 6 miliardi con JP Morgan, Goldman Sachs e Morgan Stanley a fare la parte del leone. Nel 2003, una storica decisione della Fed garantì a Citigroup di proseguire nel commercio delle materie prime giudicando questo comparto pienamente complementare alle attività finanziarie dell’istituto. Da allora le banche si sono lanciate nell’avventura sfruttando il boom della domanda di Cina e India e scegliendo di operare tanto nel mercato finanziario vero e proprio (attraverso lo scambio di titoli derivati, come i contratti futures e forward) quanto in quello fisico attraverso lo stoccaggio e il commercio.

Il problema, nota però qualcuno, è che la potenza di fuoco delle banche rischia di garantire loro una posizione dominante sul mercato con il rischio di manipolare i prezzi. L’ultimo caso clamoroso si è avuto con la denuncia di due giganti del mercato come Boeing e Coca Cola che, insieme a un gruppo di produttori di birra e di automobili, hanno accusato Goldman Sachs e JP Morgan di alterazione del prezzo dell’alluminio.

Ma la querelle dell’alluminio non rappresenta un caso isolato. Prendiamo il rame. Alla fine del 2010, il metallo toccò il valore più alto degli ultimi 22 anni. Nello stesso periodo, il Wall Street Journal rivelò che un singolo trader era arrivato a possedere da solo dall’80 al 90% del rame depositato nei magazzini della London Metal Exchange (Lme), più o meno la metà del quantitativo disponibile sulla piazza mondiale. Il controvalore di mercato si aggirava all’epoca sui 3 miliardi di dollari. Sul nome del fortunato possessore, ufficialmente, regnava il mistero. Ma tutti gli osservatori puntavano il dito senza esitazione su JP Morgan che secondo alcune fonti citate dallo stesso quotidiano finanziario Usa era arrivata a possedere la metà del rame quotato a Londra già un mese prima. Una posizione di indubbio vantaggio, insomma, che avrebbe fatto sorgere inevitabilmente la forte tentazione di condizionare il prezzo di mercato attraverso una semplice speculazione al rialzo.

Il caso più clamoroso, però, riguarda probabilmente il petrolio. Nel luglio 2012, la società di private equity Carlyle Group ha rilevato dalla Sunoco Inc. l’impianto di raffinazione petrolifera di Philadelphia, il più grande della East Coast Usa, grazie all’apporto di JP Morgan, in seguito impegnata nelle operazioni di vendita e rifornimento. Tutte attività, queste ultime, che caratterizzano da tempo le banche. Nello stesso periodo, Morgan Stanley, ad esempio, riforniva di petrolio le raffinerie della PBF Energy in Ohio acquistando prodotti finiti dalla medesima compagnia in New Jersey e nel Delaware. Goldman Sachs era al tempo stesso fornitore e cliente delle raffinerie della Alon Usa Energy Inc. in California, Louisiana e Texas.

Il caso banche-commodities è attualmente all’attenzione della Commissione bancaria del Senato per le istituzioni finanziarie e la protezione del consumatore. Il senatore democratico dell’Ohio Sherrod Brown dovrebbe sentire in questi giorni le testimonianze dei rappresentanti della grandi banche in merito alle loro attività nel settore delle materie prime.

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