Forse  poteva succedere (quasi) ovunque, però è successo lì. Nella calma placida del primo pomeriggio di domenica (31 marzo), a cento metri dalla Grande Moschea, nella città santa di Kairuan, Tunisia.

All’improvviso, un trambusto. Noi siamo un gruppo di ben nove tra adulti e adolescenti italiani, davanti a noi un bambino apparentemente sulla decina d’anni tenta di fuggire dalla presa di una ragazza e di un altro bambino. Poi arriva un uomo furente che lo assale a pugni e calci e infierisce quando è a terra. Cerchiamo confusamente di far qualcosa, realizziamo che è il padre, la ragazza ci urla di smetterla di fotografare, perché son fatti loro, questioni familiari.

Due passanti tunisini riescono a trattenere per un attimo il padre, vediamo che il bambino non si regge in piedi e vomita. La ragazza e altri famigliari lo trascinano in una botteguccia dove si infila anche il padre e spariscono nel retro. Le foto le facevo pensando a una possibile denuncia, con la ragazza il litigio è stato sintetico: “ non può picchiarlo così” dico io, “ha il diritto di farlo, è suo padre” dice lei. Un passante tunisino ci dice sottovoce, come rivelando un terribile segreto, che il bambino avrebbe rubato delle sigarette. Uno di quelli che per un attimo ha trattenuto il picchiatore lavora in Italia, in Veneto. Dice che è assurdo, non è giusto, ma qui non è come in Italia, è considerato normale. Può darsi ma non può essere legale, replico. Con chi nel gruppo vuole come me fare qualcosa cerchiamo la polizia. Nel piccolo commissariato dentro la Medina ci stanno ad ascoltare, guardano le foto e commentano che non sono abbastanza eloquenti, poi che loro non parlano bene francese e di andare al commissariato centrale.

Alla centrale della Garde Nationale ci accolgono due ufficiali in divisa che sembrano darci ragione.

“Certo, è una cosa contro la legge, un padre non può fare ciò che vuole”. Ma ci accompagnano a un altro commissariato ancora, dicono che è quello competente, quello del centro di Kairuan, dove ci sono solo poliziotti in borghese. Qui raccontiamo di nuovo la storia più volte, perché entrano ed escono dall’ufficio vari personaggi, che commentano in modo incerto e scettico il nostro racconto. “Ah ma non era un uomo che picchiava un bambino, era suo padre.” Finalmente chiamano uno che definiscono il capo che mentre ascolta la storia un po’ da loro e un po’ da noi, sorride, anzi ridacchia. “Tutto qui? Ci sono ben altri problemi…”. “Signori, se quello era suo padre noi non possiamo intervenire nei suoi sistemi educativi”. “Va bene, allora lo scrivo. Lei commissario come si chiama? Io sono giornalista.” Il commissario ridacchia di nuovo: “non glielo dico come mi chiamo, aspetti un attimo.” Escono quasi tutti, iniziano una specie di concitata riunione che in parte prosegue anche quando rientrano, tanto è evidente che non parliamo arabo.

Arriva un altro commissario o simili, sempre in borghese, che ci dice che il giudice non vorrà entrare nella questione tra padre e bambino, ma che essendo io giornalista (han controllato il tesserino) non vogliono far la parte di chi non ascolta. Il primo commissario, infatti, il capo, annuncia con tono ufficiale e scocciatissimo che raccoglieranno la nostra denuncia e faranno accertamenti. Scrivono e ci fanno firmare poche righe in arabo, senza darcene copia. Infine due agenti su un gippone ci accompagnano a prender nota del luogo in cui abbiamo visto la violenza. In caso di necessità ci cercheranno, non so come perché non han chiesto né telefono né mail. Alla sera raccontiamo la storia al simpatico e intelligente albergatore dell’Hotel des Jeunes di Sbeitla, secondo il quale c’è un Codice di Protezione della Infanzia che proibisce rigorosamente di picchiare i bambini. Già, ma se la gente non lo capisce…

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