Recentemente anche a seguito delle pressioni ambientaliste,  la Levi’s ha ridotto di dieci volte il consumo di acqua per produrre jeans e ora usa la plastica riciclata delle bottiglie come fibra sintetica per ricavarne i tessuti. 

Tali cambiamenti, così come quelli altamente redditizi in termini di risparmi progettati da General Electric con il programma ‘Ecoimmagination’, da DuPont, Unilever, Mark & Spencer, Patagonia e sempre più  aziende, non sono ascrivibili unicamente a strategie di marketing e brand reputation: fanno parte di quella che definiamo ‘Corporate’ Social Innovation. Che promette (o minaccia, dipende dai punti di vista) di cambiare il volto del capitalismo, rendendolo più sociale, sostenibile, centrato sul doppio valore economico e sociale. 

Citando un grande imprenditore come Richard Branson (Virgin) ‘Bisogna rivoltare il capitalismo dalla testa ai piedi passando dal solo profitto alla cura delle persone, delle comunità e del pianeta’ (‘Screw Business as Usual’, Virgin Books, 2012). 
Secondo un guru del management come M.Porter,  la creazione di ‘valore condiviso’ (Creating of Shared Value, csv) dovrebbe prevalere nel guidare gli investimenti effettuati dalle aziende presso le comunità in cui operano.

Ethisphere‘ ha paragonato i rendimenti delle società più “etiche”con la classifica S&P 500, rilevando una maggiore profittabilità per la lista delle società considerate più etiche. 
Il rapporto con la società da parte delle corporation può diventare anche educativo – come nel caso di General Electric che ‘istruisce’ i consumatori sulle modalità di risparmio energetico. 

Non è sorprendente quindi che uno dei principali consulenti  americani di Corporate Social Innovation come Jason Saul arriva a chiedersi ‘Could  IBM educate students better than charter schools? Affermando poi: How do we turn social strategies (i.e. csr and Philanthropy) in Business Strategies? Social Innovation offers the keys to unlocking the potential of the last great untapped business market: society  (Social Innovation Inc., London, Wiley, 2011)

E qui entriamo in un terreno minato, in cui il ruolo attivo del capitalismo socialmente innovativo può potenzialmente rafforzare la sua presenza nella gestione di servizi tradizionalmente  pubblici a causa di un ‘ritiro’ dello stato ‘dovuto’ (meglio dire ‘imputato’) al debito pubblico. Dopo il ‘nonprofit’ a ‘puntellare’ quel che rimane del welfare ci sarebbe quindi il mercato più puro. Nei paesi considerati più in crisi come la Spagna, da dove scrivo questo post, e non solo, ci si chiede se sia giusto e possibile ‘cedere’ ai privati i trasporti pubblici, l’istruzione, in parte la sanità.

Le obiezioni le conosciamo tutti:  le tratte non redditizie a rischio di abbandono, educazione di qualità solo per chi se lo può permettere, sanità a caro prezzo ed esclusione sociale come negli USA…. Più in generale, qualcuno dice ‘questa storia del ritiro dello Stato è solo un assist al capitale privato per ampliare i propri mercati’. Gli statalisti puri, c’è da dire, non hanno mai visto di buon occhio neanche il settore nonprofit, accusato di ‘fare cose’ che in realtà spettavano allo Stato, ‘deresponsabilizzandolo’. Perfettamente condivisibili- personalmente non farei mai educare i miei figli da IBM e sono totalmente per la scuola pubblica. Eppure c’è qualcosa di molto interessante in tutto questo, e direi anche di molto sano: il sedersi, intorno ad un tavolo, di tutti gli attori sociali (inclusa la finanza –soprattutto se ‘sociale’) per contribuire insieme alla risoluzione dei grandi bisogni sociali ed ambientali in modi sostenibili –  quindi imprenditoriali- e non filantropici, o statalisti. Proprio il ‘creare nuove relazioni e risposte innovative’, il ‘co-progettare’ soluzioni tra attori diversi, con la possibilità di creare un’economia collaborativa e più diretta (come nei  vari servizi di sharing) è il ‘succo’ della Social Innovation.

Co-progettare appunto. Ma chi gestisce il  ‘tavolo’,  come si misura il valore di quanto prodotto, come far si che sia la cittadinanza a valutare e mantenere non solo  il controllo sulle soluzioni proposte, ma a co-progettarle attivamente? In questo blog, continueremo a confrontarci, immagino come sempre tra roventi polemiche…

Ma rassegnatevi, la Social Innovation ormai la abbiamo anche tra le gambe: la Levi’s insegna!

PS. Per approfondire vi segnalo il volume ‘Social Innovation e Social Business-Nuove relazioni per co-progettare il cambiamento ed uscire dalla crisi’, a mia cura e che vede il confronto tra i principali protagonisti della Social Innovation Italiana. 

 

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