Certo che, per uno che vuole raccontare storie, chiamarsi Mo Yan, cioè ‘colui che non vuole parlare’, è di per sé un bel programma. Però Mo Yan, anche se ha dovuto piegarsi alle umiliazioni della rivoluzione culturale maoista, nel corso degli anni ha parlato, anzi ha scritto, e ha prodotto una letteratura che, stando alle motivazioni dell’Accademia svedese che assegna il Nobel ha un carattere allucinatorio che sa fondere epica e realtà.

Da noi Mo Yan è conosciuto al grande pubblico soprattutto per le opere dalle quali sono strati tratti film di un certo successo. Su tutti ‘Sorgo Rosso’ che nel 1988 vinse il Festival di Berlino, nel quale è chiara questa sua aspirazione ‘epica’ e visionaria, capace di attingere alle storie familiari, ai fatti reali per trasfigurarli e, alla fine, raccontare la ‘storia di tutti’. Mo Yan è uno scrittore capace di tornare indietro, verso una lingua cinese parlata e mai scritta, capace anche di non sottostare alle regole del grande romanzo europeo ottocentesco e, come per esempio in Le sei rincarnazioni di Ximen Nao, non far precipitare le vicende raccontate verso un finali, ma sfaccettarle in narrazioni autonome, in tanti rivoli minori che non soffocano, però, il fluire della grande narrazione che dunque continua a scorrere, anche se, contrariamente alla nostra abitudine occidentale, non si risolve magari in una resa dei conti. 

Uno scrittore senz’altro profondo e interessante, con il quale l’Accademia porta in primo piano la letteratura di uno sterminato Paese e come quasi sempre lascia un rivolo di polemiche non tanto per la sua qualità letteraria, quanto per la sua posizione ‘morbida’ nei confronti del regime cinese che, per esempio, non solo non gli ha mai fatto  pronunciare parole di sostegno ai dissidenti, ma nel 2009 gli ha fatto abbandonare la Buchmesse di Francoforte proprio per la presenza in quella rassegna di scrittori dissidenti.

Abile nel conservare un certo equilibrio, facendo leva sul suo passato di perseguitato dal maoismo, così da essere apprezzato nelle democrazie straniere e considerato dagli alti ranghi del regime comunista, Mo Yan si troverà ora con la luce dei riflettori puntata addosso e con la nostra curiosità di ascoltare le parole di “chi non vuole parlare”. 

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