Il ministro per i Beni Culturali Lorenzo Ornaghi ha scritto al «Corriere della sera» per rispondere ad una doppia lettera aperta in cui Italia Nostra ed alcuni storici dell’arte (tra cui il sottoscritto) gli chiedono spiegazioni sulla mostra del Rinascimento fiorentino a Pechino e sulla designazione del filosofo del diritto Francesco De Sanctis alla presidenza del Consiglio superiore dei beni culturali.

Nel breve testo, tuttavia, di risposte non ce ne sono. Il ministro non parla della sicurezza delle fragilissime opere d’arte spedite in giro per il mondo come agenti di commercio (Italia Nostra chiedeva di sapere «quante opere vengono prestate ogni anno, quali e quante opere sono tornate danneggiate, quale è stato il “ritorno” in termini economici e di prestigio culturale»), né si degna di spiegare perché ha messo un filosofo del diritto nel ruolo che fu di Federico Zeri e Salvatore Settis.

In compenso, sotto il belletto un po’ avariato di un’involuta prosa curiale cova un veleno non meno curiale: Ornaghi ne fa una questione di stile. Il «fraseggio» della lettera di Italia Nostra e i valori su cui essa si fondano gli paiono «ideologicamente grossolani». Se preoccuparsi per l’incolumità del patrimonio è «grossolano», ci si chiede quali siano i parametri di giudizio del massimo tutore (per fortuna pro tempore) di quello stesso patrimonio: non dimettersi dalla carica di rettore della Cattolica infischiandosene dei mille conflitti di interesse deve apparire ad Ornaghi una mossa ideologicamente raffinata; designare al vertice del Consiglio superiore dei Beni culturali l’ex rettore di un’altra università privata senza alcuna competenza deve sembrargli raffinatissimo; nominare nel consiglio di amministrazione della Scala il proprio assistente personale dev’essere per lui un vero vertice di raffinatezza.

Ma la lettera di Ornaghi tocca l’apice laddove ‘rettifica’ una frase della lettera di Italia Nostra relativa alla nomina di Marino Massimo De Caro alla direzione della Biblioteca dei Girolamini: «non ho mai nominato De Caro a un tale incarico», precisa, risentito, il ministro. Ma si guarda bene dall’aggiungere che De Caro (oggi in carcere per averla svaligiata, quella biblioteca) fu nominato grazie ad un improvvido nulla osta del suo ministero; che un’ispezione ministeriale ai Girolamini fu insabbiata per ragioni su cui la magistratura sta indagando; e soprattutto sul fatto che egli ha incluso De Caro tra i propri consiglieri personali. Tutti atti che gli devono apparire così poco «grossolani», anzi così fini, da non doversene minimamente scusare.

Fino ad oggi il ministro ha detto di aver confermato De Caro perché parte del ‘pacchetto’ ereditato da Giancarlo Galan (il che non è comunque vero, perché due di quel gruppo furono espunti), lasciando intendere di non aver avuto sostanzialmente alcun rapporto con il detentore dell’imbarazzante primato di essere il primo consigliere del ministro dei Beni Culturali finito in carcere per aver saccheggiato una biblioteca statale.

Ma a giudicare da quanto si legge sull’ultimo numero dell’Espresso, le cose non stanno proprio così. Il 25 febbraio scorso De Caro comunica al suo mentore Marcello Dell’Utri (allora momentaneamente espatriato in America latina, in attesa del verdetto della Cassazione sui suoi rapporti con la mafia) che i senatori del Buongoverno (il gruppo di Dell’Utri coordinato dallo stesso De Caro) hanno presentato un subemendamento per esentare dall’Imu gli edifici storici di proprietà della Chiesa. Il consigliere De Caro può anche riferire al senatore che Ornaghi (ministro-e-rettore-della-Cattolica) «è contentissimo» (strano, vero?). Memorabile il commento di Dell’Utri che, con un piede nella latitanza, benedice l’operazione: «È cosa di giustizia, sottoscrivo».

A legger tutto ciò si capisce, finalmente, perché il ministro Lorenzo Ornaghi scriva al «Corriere» che le preoccupazioni di Italia Nostra sarebbero «ideologicamente grossolane»: egli coltiva frequentazioni assai più pragmatiche e pratica conversazioni assai più raffinate.  

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