In questi mesi si parla molto di liberalizzazioni, visto che il Governo Monti e l’Unione Europea stanno cercando di liberalizzare il liberalizzabile. L’inverso logico delle liberalizzazioni nel mondo del lavoro sono gli Ordini Professionali. La posizione Europea è chiara: gli ordini professionali possono esistere se è chiara la loro funzione di interesse pubblico nella società. Se sono fonti di monopoli, oligarchie, posizioni dominanti, e non servono pubblicamente, vanno sciolti o regolamentati meglio. I due recenti decreti sul tema dei Governi Berlusconi e Monti hanno suscitato un dibattito pubblico sulla funzione sociale degli Ordini e sulle implicazioni occupazionali della loro riforma, mentre all’interno dei singoli Albi professionali, oltre a organizzare degli incontri con il Governo, si stanno proponendo delle auto-riforme con l’obiettivo di farcela per il prossimo 18 agosto. Addirittura si sta organizzando per il 1 marzo un Professional Day con tanto di evento televisivo e streaming su Internet.

Di quanto sta accadendo all’Ordine dei Giornalisti si parla poco, soprattutto se ne parla poco ai cittadini, che meritano trasparenza su quelli che dovrebbero essere i loro fornitori di informazioni… ma si sa, i giornalisti non amano parlare delle loro cose in pubblico. Riservatezza o vergogna ? Ai posteri l’ardua sentenza. O forse in questo caso si tratta più della sindrome Nimby di un gruppo di professionisti – non tutti, ad essere sinceri – che per mestiere raccontano degli altri, ma non delle loro cose. Che chiedono riforme, ma che non amano essere riformati.

Cerchiamo quindi di spiegare un po’ la situazione. L’Ordine dei giornalisti è una peculiarità italiana, da molti deprecata. L’Ordine è stato istituito con la legge n. 69 del 3 febbraio 1963, Come ricorderete nel 1997 ci fu anche un referendum promosso dai radicali per l’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti, che non raggiunse il quorum necessario ma che vide vincere nettamente i sì favorevoli all’abrogazione.

Sono anni che si parla di una riforma dell’Ordine, ci sono state varie proposte di legge, ma non essendoci pressione verso il cambiamento tutto è rimasto come prima. Tra le cose strane dell’Odg c’è il fatto che al suo interno coesistano due figure professionali diverse come pubblicisti e professionisti, con percorsi di accesso alla professione, diritti, doveri e inquadramenti contrattuali differenziati. Infatti, appena si è parlato di una riforma forzosa della professione, c’è stata una levata di scudi dei pubblicisti che, per quanto siano numericamente molti di più, temevano di essere cancellati. Fra di loro ci sono giornalisti che non scrivono assolutamente nulla, ma usano il tesserino dell’Ordine per darsi un tono ed entrare gratis nei musei, e giornalisti di competenze pari ai professionisti che meriterbbero di fare il salto “verso l’alto” e a cui questo viene impedito dalla situazione demenziale, e ora in piena crisi, del mercato editoriale.

Alla fine, dopo molte discussioni interne, il 19 gennaio 2012 l’Ordine Nazionale dei giornalisti ha votato e rese pubbliche le Linee Guida di riforma dell’ordinamento giornalistico. Si tratta di una serie di proposte minimali, sostanzialmente non decisioni.

Per quello che riguarda l’accesso alla professione, viene richiesta la laurea insieme a un tirocinio di 18 mesi, ma se ne prevedono ben cinque tipi diversi. Poi c’è il non chiaro passaggio della scelta tra “l’Elenco Professionisti o in quello Pubblicisti non possedendo il requisito dell’esclusività professionale”. E poi una norma che non si capisce se clientelare, comica o tragica: “Chi ha già superato un esame di Stato per l’iscrizione a un diverso Albo professionale e ha svolto il tirocinio giornalistico, può accedere direttamente all’Elenco Pubblicisti”. Come dire: se uno è iscritto all’ordine dei medici o degli ingegneri lo si puo iscrivere direttamente, dopo 18 mesi di tirocinio e senza specifico esame all’Ordine dei Giornalisti. Della serie “strano ma vero”. Sul tema della formazione permanente le proposte si tengono sul vago, ma dicono chiaramente che la formazione sarà una delle mission specifiche dell’ “Ordine riformato”.

Veniamo ai Consigli di disciplina: la loro nascita deriva dalla volontà di realizzare una entità indipendente che giudichi i comportamenti deontologici degli iscritti dotati di indipendenza di giudizio, per evitare i conflitti di interessi e  le situazioni del tipo “Cane non mangia cane“. La proposta di riforma è un conflitto di interessi dopo l’altro perchè i membri dei Consigli di disciplina dovrebbero essere nominati dall’omologo Consiglio ordinistico, alla faccia dell’indipendenza di giudizio. Poi, per essere nominati negli stessi occorrono 15 anni di iscrizione all’albo e per le cariche nazionali l’aver avuto precedenti cariche.

Ora, se i cittadini possono anche dire “Ce ne capisco poco”, dovrebbero essere gli stessi giornalisti, quelli seri e onesti – ne esistono ancora, e molti, anche se non sempre occupano posizioni molto visibili – a indignarsi per una non riforma del loro Ordine. Non c’è da pensare che il Governo Monti approvi per serietà queste proposte, anche perchè vanno armonizzate con quelle degli altri albi professionali. Se per errore fossero approvate, ci sarebbero dei giornalisti in grado di manifestare contro possibili obbrobri legislativi. Dopo che la loro professione è stata svuotata ed impoverita da editori e colleghi poco degni del sostantivo utilizzato, dopo che la credibilità e l’eticità del loro mestiere si è persa nella percezione dei cittadini , occorre un cambiamento forte, deciso, radicale, non un papocchio. Se no, tanto vale, come oramai si legge in giro, pensare a un decoroso autosciolgimento dell’Ordine.

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