Ieri notte, al termine d’un lungo ed estenuante testa a testa con Jair Messiah Bolsonaro, Luiz Inácio da Silva, meglio noto come “o Lula”, ha vinto la sua ultima battaglia. E, compiuti da tre giorni i suoi 77 anni di età, sarà per la terza volta presidente del Brasile. Nel 2026, quando – incrociando le dita – terminerà il suo mandato, Lula ne avrà, di anni, 81 e passa. E con la sola – e storicamente incomparabile – eccezione di Getulio Vargas, il venerato, ma assai ambiguo padre del populismo brasiliano che, tra il 1930 ed il 1945 dominò, spesso da dittatore, la Seconda e la Terza Repubblica, sarà il più longevo presidente della storia repubblicana del più grande paese dell’America Latina. Ed anche il primo ad avere ad aver governato per tre mandati.

“O Lula” ha vinto. Ha vinto in quella che ieri notte ha poi legittimamente celebrato come una sorta di personale resurrezione – “hanno cercato di seppellirmi vivo”, ha detto con ovvio riferimento alle vicende giudiziarie che quattro anni fa lo portarono in carcere – e, soprattutto, come una vittoria della democrazia. In queste elezioni presidenziali, ha ribadito Luiz Inácio da Silva nel suo lungo (quasi mezz’ora) “discorso della vittoria”, si sono confrontati due inconciliabili progetti di paese, uno dei quali della democrazia era, per molte ragioni, l’antitesi. Ed ora a lui toccherà governare, nel nome di tutti, con “fede in Dio e amore per il popolo”, una Nazione che, in tempi “duri e tenebrosi”, deve ritrovare “pace e armonia”, il senso perduto della propria unità, il suo cammino verso la giustizia.

Sarà possibile? Difficile dirlo. I freddi numeri del voto che ha regalato a Lula il suo terzo mandato – ed un posto d’assoluta eccellenza nella Storia del Brasile – ci dicono molte cose. E non tutte – anzi, praticamente nessuna, al di là del salvifico ma stentato prevalere del vincitore – appaiono particolarmente confortanti.

Il neo-presidente ha vinto con meno di due punti di vantaggio sull’ex capitano (ed ex-presidente), Jair Bolsonaro. Ovvero: con il più stretto margine mai registrato in una contesa presidenziale. Più ancora: con un margine troppo stretto per rappresentare anche soltanto un parziale ripudio di quella “antitesi della democrazia” – o di quella variante brasiliana del fascismo, qui ciascuno può scegliere i termini che preferisce – che va sotto il nome di “bolsonarismo”.

Lula ha vinto, ma – cosa questa già apparsa con inequivocabile chiarezza nel primo turno elettorale – il bolsonarismo non ha perso. Anzi: ben oltre i personali destini di Jair Messiah, oggi dalle statistiche bollato come primo presidente battuto dopo un solo mandato, ha decisamente vinto trasmutandosi in una permanente, stabile realtà della politica brasiliana. Permanente, stabile e, quel che è peggio, nient’affatto ambigua.

Più del 49 per cento dei brasiliani – ancora una volta smentendo sondaggi ai cui radar, non solo in Brasile, sistematicamente sfuggono le opinioni e i reazionari rancori di consistenti fette della società – ha votato per quel progetto che, repetita juvant, della democrazia era l’inequivocabile antitesi. E tutto lascia credere – ieri a tarda notte, Jair Bolsonaro ancora non aveva ufficialmente riconosciuto la sua sconfitta – che come un’inequivocabile antitesi della democrazia si contrapporrà nei giorni a venire, e con eccellenti possibilità di successo, al governo di Lula da Silva.

Questo è quel che ci dicono, ancora una volta, i numeri. E questo è quel che ci dice la logica politica. Nel primo turno il bolsonarismo ha ovunque – alla Camera, al Senato e nei governi di buona parte dei 26 Stati che compongono il Brasile – rafforzato le proprie posizioni. In triste sintesi: il bolsonarismo ha perso la corsa al “Palácio do Planalto”, ma è oggi, dopo il voto, più forte di prima nel tessuto politico-sociale del Brasile. E questo a dispetto della vergogna e del ridicolo esibiti da Bolsonaro nel corso d’una pandemía (una “gripezinha”, un’influenzucola l’aveva definita il presidente) costata 700mila morti.

In buona misura questo si può dire. Lula ha vinto. E, vincendo, ha salvato una democrazia che non esiste più. O meglio: una democrazia che va completamente (ed in difficilissime condizioni) reinventata. Queste ultime elezioni presidenziali sono state, a tutti gli effetti l’ultima spiaggia del Brasile nato nel 1985 sulle ceneri della dittatura militare – una dittatura per la quale Bolsonaro mai ha nascosto la sua incondizionata ammirazione – che aveva governato il paese dal 1964, dopo il golpe che aveva abbattuto il “troppo progressista” governo di João Goulart.

Quel Brasile era caratterizzato, nel bene e nel male, da un forte centro – o “centrão”, come talora lo si definiva in termini dispregiativi – che è di fatto svanito nel nulla. Perché – a partire da quella vergognosa manovra di Palazzo che fu, nel 2016, l’impeachment contro Dilma Rousseff – il bolsonarismo lo ha incorporato nelle sue parti più reazionarie e corrotte. O perché Lula, con l’intelligenza del grande statista, è riuscito in questi mesi a chiamarne a raccolta le parti migliori in difesa, per l’appunto, della democrazia. Al fianco di Lula, lungo questa campagna elettorale c’era, nelle vesti di vice, quel Geraldo Alckmin, storica figura del PSDB, che di Lula era stato, nel 2006, avversario nella corsa presidenziale.

Volendo riassumere in un aneddoto lo stato delle cose in questo Brasile che, sull’orlo dell’abisso, si appresta a vivere il terzo mandato di Luiz Inácio Lula da Silva, vale forse la pena rifarsi ad un siparietto vissuto, venerdì notte, durante l’ultimo ed accesissimo dibattito presidenziale, allorquando Lula – da Bolsonaro sistematicamente definito “ladro” e “bandito” – ha chiesto al presidente in carica, a proposito di “corruzione”, ragione di una molto costosa partita di Viagra destinata agli alti ranghi delle forze armate. “Servivano per terapie della prostata”, aveva senza ritegno risposto Bolsonaro. E Lula aveva – come credo tutta la parte sana del paese – risposto con un sorriso di scherno. Quelle pasticche servivano ovviamente, in una sorta grottesca e pseudo-erotica metafora della filosofia presidenziale, a garantire, erezione indotta dopo erezione indotta, l’orgoglio militar-maschilista di cui si nutre il bolsonarismo.

Quanti voti sia costata a Bolsonaro questa figura barbina, è, ovviamente, impossibile sapere. Mettiamola però così, giusto per non perdere il buonumore. Alimentata dal Viagra – o dal culto della virilità e della violenza che d’ogni fascismo è il motore – l’erezione bolsonarista continua. Ma ieri notte, dopo una durissima battaglia e grazie ad un intelligentissimo gioco di alleanze “o Lula”, ha quantomeno impedito che quell’erezione raggiungesse l’orgasmo. E per questo – vadano come vadano in futuro le cose – il Brasile ed il mondo devono comunque essergli grati. Molto grati. Specie nei paesi che – vedi, giusto per fare un esempio, il caso dell’Italia – del bolsonarismo vanno di questi tempi affrontando la propria locale variante.

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