di Eugenio D’Auria*

Un merito si deve riconoscere al Presidente Trump per le dichiarazioni rilasciate in occasione dell’incontro con il Primo Ministro israeliano Netanyahu: la questione palestinese ha ripreso centralità tra le tematiche mediorientali dopo il pressoché totale oscuramento di quest’ultimo periodo. I colloqui di Bibi – così affettuosamente chiamato da Trump – a Washington hanno posto simbolicamente il suggello alla prima fase di contatti del nuovo inquilino della Casa Bianca con i suoi principali interlocutori dell’area mediorientale.

Il quadro che emerge dalle dichiarazioni ufficiali e dai commenti sino a ora disponibili è in chiaroscuro e senza particolari novità, a eccezione della ormai celeberrima frase sulla possibile ricerca di una soluzione per l’equazione israelo-palestinese alternativa a quella dei due Stati. A conferma dell’incerta fase di rodaggio attraversata dalla nuova amministrazione statunitense a elementi di continuità con le linee principali della politica estera di Washington, si affiancano fattori che lasciano trasparire la volontà di introdurre cambiamenti, anche di un certo rilievo, per le tematiche mediorientali.

Il silenzio osservato dall’amministrazione Trump sulla decisione della Knesset per la legalizzazione di insediamenti nei territori occupati è stato prontamente utilizzato da Netanyahu per annunciare la costruzione di nuove colonie e rafforzare così la propria posizione nei confronti della destra più tradizionalista; le successive dichiarazioni dei portavoce di Trump e Tillerson hanno di molto attenuato l’iniziale esultanza delle fazioni israeliane più intransigenti. Da Washington hanno infatti sottolineato come nuovi insediamenti possano costituire seri ostacoli sul cammino della pace, obiettivo principale cui deve tendere la comunità internazionale visto il peso che il conflitto arabo-israeliano ha per la stabilità della regione.

E’ probabile che la correzione di rotta sia anche frutto dei colloqui – compreso quello con Trump – avuti da Re Abdullah di Giordania nel corso della sua ultima missione negli Stati Uniti; ciò dimostra come alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato e al Pentagono siano presenti gruppi sensibili a mantenere un certo equilibrio sulle complesse tematiche mediorientali. Non è per caso che il ventilato spostamento dell’Ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme sia stato posto su un percorso non prioritario, contrariamente a quanto affermato soltanto poche settimane fa.

Anche il colloquio telefonico con Re Salman dell’Arabia Saudita ha contribuito a introdurre delle sfumature all’approccio iniziale di Trump: il rilievo della posizione saudita quale baluardo alla crescita di influenza dell’Iran nella regione non può essere trascurato da un’amministrazione che intende adottare nei confronti del regime iraniano, considerato uno dei principali focolai di tensioni in Medio Oriente, un’agenda mirata a esaminare attentamente ogni azione di Teheran, in particolare quelle relative al rispetto delle intese sul nucleare. Su tale punto le convergenze con Tel Aviv sono notevoli anche se le valutazioni al Dipartimento di Stato e al Pentagono rimangono molto critiche su eventuali azioni di forza israeliane.

Il conflitto israelo-palestinese sembra pertanto ritornare al centro delle dinamiche che interessano la regione; le possibili soluzioni che – sia pure non nel breve periodo – si intravedono per gli altri scenari (Iraq, Siria, Libia, Yemen), potrebbero ricevere ulteriore impulso da un rinnovato confronto Ramallah-Tel Aviv per la ricerca della pace. L’avvio di un’iniziativa in tale direzione consentirebbe al Presidente di migliorare la propria immagine in un settore di grande impatto mediatico. Il diretto coinvolgimento della Casa Bianca nell’esercizio, con la ventilata designazione di Kushner a inviato del Presidente per il Processo di Pace, indicherebbe la determinazione di Washington a far ripartire e avanzare il negoziato in tempi rapidi.

La conferenza stampa di Trump e Netanyahu, curata fin nei minimi particolari dai consiglieri dei due leader e addirittura predisposta prima dei colloqui secondo alcune fonti, non rappresenta il trionfo del Primo Ministro israeliano, rientrato comunque a Tel Aviv con parecchi punti a suo favore. In concreto la ripresa dei negoziati israelo-palestinesi non potrà infatti prescindere dai punti fermi stabiliti sino a ora. La mediazione statunitense dovrà tenere conto di tale quadro di riferimento – come ad esempio ha subito ricordato la Rappresentante di Washington alle Nazioni Unite sulla questione dei due Stati – e per ottenere risultati significativi, di cui il comunicatore Trump ha sempre bisogno, alle frasi a effetto dovrà far seguito il duro e complesso lavoro sui molteplici dossier che compongono il puzzle irrisolto da oltre settanta anni.

Su un piano più generale va infine osservato come la vicenda del divieto di ingresso per i cittadini di sette Paesi di fede islamica stia caratterizzando negativamente l’approccio degli Stati Uniti all’area; nonostante le precisazioni del Dipartimento di Stato, mirate a negare ogni intento discriminatorio nei confronti dei musulmani, il mondo islamico ha percepito nel decreto un avvertimento indirizzato a tutti i fedeli di Maometto nel mondo, come evidenziato tra l’altro dalla dura reazione dell’Organizzazione della Conferenza Islamica. In attesa delle prossime mosse di Trump sulla vicenda è innegabile che l’immagine degli Stati Uniti non è di certo uscita rafforzata in tutto l’arco che va dal Marocco all’Indonesia (e presso le comunità musulmane nel mondo).

*Ambasciatore in Arabia Saudita e Austria

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