Che in alta montagna le scosse di un terremoto possano provocare non solo frane ma anche valanghe è un rischio abbastanza noto e ne abbiamo avuto la conferma diretta in Nepal nel 2015.

Il nostro gruppo di ricerca lavora da tempo in questo Paese, giacché studiamo il comportamento delle calotte glaciali, dall’Himalaya al Karakorum: sono le torri d’acqua dell’Asia, dove abbiamo fatto varie spedizioni scientifiche. Fu perciò enorme l’emozione per il disastro delle valanghe distaccatesi dalle pendici dell’Everest in seguito alle scosse sismiche della primavera di quell’anno, anche se il numero delle vittime fu poi ridimensionato (meno di 20 morti e una sessantina di feriti) rispetto agli iniziali timori, poiché c’erano quasi mille persone come possibile bersaglio. Ed eravamo in apprensione per gli amici e i collaboratori che vivono e lavorano lì.

Quanto accaduto a Rigopiano è del tutto diverso, se pensiamo che l’albergo è a quota 1.200 metri, mentre il ghiacciaio del Khumbu è a 4.900 metri di quota. Anche in Abruzzo abbiamo comunque assistito a una manifestazione dell’effetto domino che rappresenta uno degli aspetti più difficili da affrontare in caso di emergenza.

Questo effetto può manifestarsi in due forme. La prima è l’azione moltiplicatrice che innesca lo stesso tipo di catastrofe. Per esempio, il crollo di una diga può provocare il successivo crollo di altri sbarramenti a valle, come accadde nel 1975 in Cina, dove il disastro di Banquio provocò 26mila vittime. Alla seconda forma sono assimilabili i disastri concatenati di diversa natura, come nel caso abruzzese: le scosse possono attivare le frane, soprattutto se latenti, e innescare le valanghe sui versanti innevati.

In mare, il terremoto può generare uno tsunami, con grave pericolo per le coste, anche lontane dall’epicentro. All’uragano Matthew del 2016 ha fatto seguito un numero enorme di dissesti. Gli incendi sono una delle cause della desertificazione e, se il terreno bruciato viene colpito da un nubifragio prima che il suolo si sia ricostruito, le piene possono diventare rovinose e così le colate detritiche. E qualcuno potrebbe ribattere che il disastro di Banquio seminò la morte anche dopo, per via della carestia e delle epidemie: più di 200mila vittime.

Prevedere dove le catastrofi possano colpire e con quanta probabilità lo possano fare si basa su conoscenze, tecniche e pratiche di zonazione abbastanza consolidate, anche a fine risoluzione spaziale. Ciò vale per il rischio sismico e alluvionale, così come per il rischio di valanga, di frana, di tsunami e d’incendio, anche se in Italia manca del tutto una capillare, efficiente e trasparente raccolta dei dati necessari. Ma basta guardare l’assetto geomorfologico e idrografico dell’impluvio a monte dell’albergo abruzzese per porsi qualche domanda imbarazzante.

Al contrario, prevedere la concatenazione degli eventi e stabilire con quanta probabilità l’effetto domino possa manifestarsi è molto più difficile. In qualche caso, il principio di precauzione può venire in aiuto. Per esempio, uno studio dell’Oecd rivela che in Italia ci sono almeno un migliaio di siti classificati come pericolosi dalla direttiva Seveso; siti che sono, nello stesso tempo, potenzialmente inondabili. In caso di inondazione, l’effetto di dilavamento e la successiva diffusione sul territorio di potenti inquinanti può produrre danni assai maggiori di quelli della sola alluvionale. Non sarebbe quindi sbagliato provvedere alla sicurezza di questi siti anche con metodi di auto-protezione di emergenza, il cosiddetto flood proofing. E l’applicazione dello stesso principio potrebbe mitigare anche altre manifestazioni dell’effetto domino.

Ancora più complesso è stabilire le probabilità, marginale e condizionale, per cui, in seguito a un evento catastrofico in atto, se ne possano innescare a catena altri ugualmente se non più disastrosi. E la vicenda del terremoto di L’Aquila del 2009 ha insegnato molto, ma forse non abbastanza.

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