Sono passati dieci anni dalla strage di Erba, uno dei plurimi omicidi più efferati della storia italiana. Giudizialmente sono stati condannati all’ergastolo i coniugi Romano, ma continuano a crescere coloro che nutrono dei dubbi sulle tre sentenze. La stessa Corte di Cassazione, nel mettere la parola fine al processo e confermando le condanne, ha sottolineato la “gran quantità di dubbi e aporie” contenuti nelle decisioni di primo e secondo grado, con ciò disvelando un forte dubbio sulla ricostruzione probatoria. Come sostenuto dal difensore di Rosa e Olindo, avvocato Fabio Schembri, sembra di “sentire” la spaccatura all’interno della camera di consiglio, con una forte presenza di dissenting opinion (secondo la linguistica del sistema americano).

In effetti non sta in piedi nulla delle prove d’accusa: l’ora di accesso degli assassini nella casa della mattanza, la modalità esecutiva della strage, la via di fuga, l’arma del delitto, la testimonianza di Frigerio (sopravvissuto per caso) la prova del dna, la modalità della morte di Valeria Cherubini e le confessioni dei condannati.

Processualmente si tratta di un’interpretazione priva di coerenza interna. Il lavoro del giudice è come quello del direttore d’orchestra: quest’ultimo opera su una partitura musicale interpretandola attraverso un atto creativo, il primo sugli elementi di prova. La correttezza delle due modalità interpretative è dettata dalla coerenza nel rapporto tra le note e le regole artistiche o gli elementi di prova e le norme giuridiche.

L’interprete giudiziario, come quello musicale, deve operare una performing art (la sentenza) tale da rendere il più possibile aderente il proprio “atto spirituale” al fatto originario, in adesione alle regole tipiche dell’ermeneutica, che impongono di rispettare la letteralità degli elementi a disposizione, il fine di questi, la loro storicità e la loro complessiva. Come il direttore d’orchestra anche il giudice rende conto della sua interpretazione, non solamente a se stesso, ma anche al “suo pubblico” composto, nel caso del giudice, all’accusato e alla collettività (sono le funzioni special-preventiva e general-preventiva della pena).

Come sostenuto da un filosofo del diritto “allo stesso modo della grafia musicale anche all’interno del discorso giuridico riscontriamo elementi non definiti […] la cui determinazione è lasciata all’attività interpretativa posta in essere dalla giurisprudenza”. In questo modo i giudici, che rendono compatibili gli elementi di prova con la norma di diritto, in una rivisitazione sinfonica della realtà storica degli accadimenti di per sé inarrivabili, non sono applicatori passivi di una realtà data, ma ne diventano veri e propri creatori.

Analogamente, il direttore d’orchestra, opera “esteticamente” e nel rispetto delle regole dell’ermeneutica al fine di ripercorrere ciò che l’autore avrebbe voluto comunicare con quel brano. Per il diritto, come per la musica, non è però ammessa ogni interpretazione; il pubblico non può accettare una performing art anarchica e dettata dal puro nichilismo ermeneutico: per il giudice esiste la legge e la regola sulla prova, per il direttore d’orchestra la partitura, lo stile di appartenenza e la coerenza con l’opera che è chiamato a interpretare anche nel rispetto del complesso delle opere del medesimo autore.

Valga un esempio: “l’allegro” di una partitura barocca è assai differente da quello di un brano romantico e il direttore d’orchestra violerebbe le regole dell’ermeneutica musicale se confondesse l’uno con l’altro, per un proprio “gusto” del tutto personale. In ambito di performing art giuridica, non si può asserire che non vi sia differenza ermeneutica tra un riconoscimento testimoniale che va modificandosi nel corso del tempo, dopo l’intervento dell’inquirente che “suggerisce” di pensare ad un possibile assassino, ed un riconoscimento spontaneo, immediato e coerente nelle diverse fasi del procedimento.

Così non è identica e indifferente l’interpretazione giudiziaria tra una macchia di dna visibile e repertata secondo le regole rispetto a una invisibile che si asserisce “come presente” in base a una dichiarazione autocertificante da parte dell’investigatore e senza evidenze fattuali rispetto alla sua materiale esistenza. Il direttore dell’orchestra giuridica non può liberamente rivisitare una confessione sostenendo apoditticamente che gli errori in essa contenuti (rispetto ai riscontri fattuali a disposizione) siano frutto di una strategia preordinata da parte del medesimo individuo che si autoaccusa.

La confessione, in ambito giudiziale, è una prova assai complessa, un vero e proprio rebus nelle mani dell’interprete. I sistemi processuali occidentali ne prevedono due generi: quella consistente in una mera dichiarazione di colpevolezza e funzionale solamente alla scelta di riti processuali alternativi (usualmente il patteggiamento) e quella “istruttoria” cioè dire avente capacità di fonte di prova.

Quest’ultima non può fungere da prova legale e dunque portare alla indiscutibile colpevolezza del dichiarante, ma deve essere adeguatamente riscontrata dai dati di fatto raccolti. In caso di dissonanza con questi non può essere considerata utile per il raggiungimento della certezza sulla colpevolezza del dichiarante. La confessione, peraltro, come la partitura musicale, è intrisa di “silenzi” e dunque di assenza di note e dichiarazioni. Questi silenzi non sono “un nulla” ma, anch’essi, debbono essere profondamente valutati ed interpretati.

La performing art giudiziaria che ha caratterizzato le decisioni sul plurimo omicidio dell’11 dicembre 2006 a Erba, è una di quelle interpretazioni musicali poste in essere da un direttore d’orchestra che ha aderito al nichilismo ermeneutico, indifferente ad ogni regola, in cui la scelta estetica del “sentire” del direttore d’orchestra fosse del tutto libera di rivisitare i dati di fatto, pretendendo poi che questi fossero aderenti alla realtà originaria. Come se fosse consentito asserire che la Nona Sinfonia di Beethoven fosse stata scritta dall’autore secondo lo stile della musica rap.

Non è impossibile tentare un simile azzardo estetico ma è vietato sostenere che si tratti di un’operazione ermeneutica corretta. Così non è impossibile giocare liberamente con la prova per costruire un’interpretazione dei fatti di tipo esteticamente stravagante, ma è vietato sostenere che si tratti di un’operazione ermeneutica corretta ed aderente alla realtà. Dopo dieci anni la giustizia merita di più. In nome delle vittime.

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