Nell’ambito degli impegni assunti dal Consiglio Europeo nel 2014 per la riduzione del 40% delle emissioni di gas serra al 2030 (baseline 1990), confermati nell’accordo di Parigi, e del quadro di regole condivise per il raggiungimento dell’obiettivo (-43% da ETS – v. sistema di scambio delle emissioni, – e -30% dai settori non-ETS, baseline 2005) la Commissione Europea ha pubblicato la sua proposta di suddivisione delle quote da assegnare a ciascuno Stato membro per i settori non-ETS (i settori ETS sono quelli dell’energia e delle attività industriali ad alto consumo energetico come cementifici e cartiere).

Il metodo di calcolo usato da Bruxelles è una formula basata sul Pil pro capite. In tal modo si introduce un criterio che indirettamente dipende anche dallo stile di vita prevalente e dai consumi, nonché dai comportamenti e dagli sprechi personali. Le nazioni “più ricche” dovranno fare sforzi maggiori, anche laddove le loro politiche energetiche sono meno arretrate che altrove (v. Germania vs. Polonia). Questa, oltre che un’indicazione sul riallineamento della crescita, è anche un indirizzo di politiche energetiche e industriali per i Paesi più tecnologicamente avanzati. Tutti gli Stati membri ne sono coinvolti, in quanto saranno liberi nel decidere le modalità di attuazione delle misure intese a conseguire comunque l’obiettivo concordato per il 2030.

In un’apposita proposta pubblicata dalla Commissione, gli sforzi nazionali di riduzione delle emissioni vanno dal -40%, per Lussemburgo e Svezia, sino al -2% della Romania e allo 0% per la Bulgaria. In particolare, Danimarca e Finlandia dovranno tagliare le loro emissioni del 39%, La Germania del 38%, la Francia del 37% quanto la Gran Bretagna (ma ora c’è la Brexit), la Spagna del 26%, la Polonia e l’Ungheria del 7%.

Per l’Italia la proposta prevede un obiettivo di riduzione delle emissioni del -33%, corrispondente a un taglio di ben 111,7 milioni di tonnellate di CO2 equivalente (MtCO2eq), che porterebbe il budget di emissioni del nostro Paese al 2030 a un totale di 226,8 milioni di tonnellate. Ricordiamo che al 2020 il nostro Paese dovrebbe ridurre le emissioni a 294,4 MtCO2eq: quindi la nuova proposta imporrebbe un’ulteriore riduzione dal 2020 al 2030 di 67,6 MtCO2eq.

Va detto che questa ripartizione avanzata dalla Commissione non sarebbe sufficiente se si volesse perseguire l’obiettivo che nel testo dell’Accordo di Parigi è indicato come scenario “ben al di sotto dei 2°C”. In questo caso occorrerebbe un impegno ancora maggiore. Ci si chiederà: ma questo impegno cambierà o no le politiche occupazionali, industriali e energetiche in modo molto incisivo e vantaggioso? Ed infatti in Germania la discussione nel Parlamento e nei Land è molto avanzata e se ne fa carico l’informazione locale e nazionale.

Ma che fa il nostro governo, oltre a non aver aperto ancora una discussione in Parlamento sull’accordo di Parigi? E pensare che nel frattempo Enel ha annunciato la dismissione di 23 centrali (11 GW di termoelettrico da chiudere). Proprio nulla: l’ineffabile Consiglio dei ministri si è infatti limitato ad accennare a futuri confronti sul territorio tra venditori e compratori di energia elettrica ed a comunicare vaghe assicurazioni sul mantenimento dell’occupazione. Se ne fa quindi una questione di routine, a cui non sono nemmeno sollecitate le organizzazioni sindacali (che tra l’altro non ne parlano quasi). Al contrario, qui c’è materia e una straordinaria occasione per la riconversione ecologica e industriale, con grandi spazi per occupazione aggiuntiva e qualificata, al Sud come al Nord.

E sempre a proposito: tra le innovazioni di maggior rilievo che andranno a referendum in autunno c’è anche la riforma del Titolo V con una nuova attribuzione di poteri tra Stato e Regioni in materia di energia. Con quali effetti? Al momento, come discutono in un importante articolo Stigliani e Cortellessi, anche per la notoriamente non felice formulazione del testo, non è possibile definire quali saranno le ricadute della riforma nel rapporto tra lo Stato e le Regioni e quali saranno i suoi effetti sul coinvolgimento dei territori nella costruzione di un quadro di regole più chiaro e condiviso, quindi meno conflittuale. Dato che l’intervento legislativo va in direzione di un superamento di forza del ruolo decisionale degli enti territoriali e locali, come si discuterà della dismissione delle centrali termiche Enel sul territorio, della loro sostituzione con fonti rinnovabili, del contributo effettivo al raggiungimento di quella riduzione del 33% di CO2 prevista dall’adesione dell’Ue agli accordi di Parigi, del miglioramento ambientale e dell’impatto coi piani paesaggistici e di governo del territorio? Confusione più assoluta.

In sostanza, si continua il tran tran di annunci senza conseguenze, di spasmodica attesa sugli schieramenti al referendum e con il minestrone stracotto del ruolo di Salvini, degli ammonimenti bonari di Bersani, del tenerci Renzi altrimenti saremmo tutti senza una guida innovatrice. Ma delle questioni che riguardano il futuro del Paese, oltre la sua classe politica, si comincerà pubblicamente a discutere?

a cura di Mario Agostinelli e Roberto Meregalli

Articolo Precedente

Referendum, dieci parlamentari del Pd per il No: “Vogliamo dar voce ai democratici contrari alla riforma”

next
Articolo Successivo

Riforme, parte la campagna M5s. Di Battista: “Giro l’Italia in motorino per spiegare le ragioni del No”

next