Chi si è stupito per l’arrivo sulla tv italiana di una soap opera turca, evidentemente non conosce bene le potenzialità produttive della Turchia e la sua irresistibile ascesa sul mercato televisivo globale. La serie in questione è Cherry Season, in onda su Canale5 dal lunedì al venerdì alle 14,45, che nella sonnacchiosa estate televisiva italiana riesce comunque a ottenere circa 2 milioni di spettatori (per uno share tra il 18 e il 19%). Risultati lusinghieri, per un prodotto che in patria ha sfondato il muro del 32% di share.

Seguendo le vicende turche di queste settimane, qualcuno potrebbe pensare che Cherry Season sia una “fiction romantica” (ormai usano questa espressione quando si vergognano di usare “soap opera”) castigata, molto orientale, attenta all’aria che tira nella Turchia del sultano Erdogan. Nossignore. La società raccontata è molto occidentale, vicinissima allo stile di vita europeo, quella di Istanbul, insomma, non certo dell’Anatolia profonda. Una contraddizione apparente che chi conosce la Turchia si spiega perfettamente: Istanbul è una grande metropoli, con una società in larga parte secolarizzata, e Cherry Season, che è un prodotto destinato al mercato globale, non poteva che raccontare quel lato della società turca. Amori, tradimenti, intrighi: tutti temi classici del genere soap opera, declinati in maniera convenzionale e standardizzata anche nel prodotto turco trasmesso da Canale5. Nessuna sorpresa, dunque, per un successo che è figlio di un prodotto realizzato come si deve, per un certo tipo di pubblico, e poco importa se si tratta di un pubblico turco, azero o italiano.

L’egemonia turca in tutto il mondo arabo, e in generale musulmano, sul settore della serialità televisiva è un fenomeno molto interessante da analizzare. Prima erano gli egiziani a farla da padroni, poi si erano inseriti con un certo successo anche i siriani. Ma da quando l’Egitto ha perso molto del suo appeal in seguite alle intricate e delicate vicende politiche, e da quando la Siria è invischiata in una lunga e devastante guerra civile, qualcuno a Istanbul e Ankara deve aver capito che ci si poteva inserire in quel vuoto di potere televisivo. Egemonia televisiva, dunque, che rientra comunque in un progetto a più ampio spettro che è innanzitutto geopolitico e geoeconomico. Che Erdogan da anni si stia impegnando in una paziente costruzione di una forte leadership regionale è sotto gli occhi di tutti, e la tv, come sempre, è uno degli strumenti per raggiungere l’obiettivo.

La Turchia non è un paese arabo, ma gli arabi li conosce molto bene, anche perché per secoli li ha dominati sotto le insegne dell’Impero Ottomano. Ma la Turchia secolarizzata figlia di Atatürk come è riuscita a conquistare i mercati televisivi di altre nazioni decisamente meno laiche? È la ricetta Erdogan utilizzata anche in tv: paese laico sì, ma sempre più attento ai dettami religiosi, attraverso una transizione a un Islam più radicato (e purtroppo radicale) che si riflette anche in tv. Una schizofrenia identitaria che è chiaramente percepibile anche nei prodotti televisivi esportati dalla Turchia nell’area mediorientale e islamica: se da un lato troviamo soap come Cherry Season (laica e filo-occidentale), in onda anche in tutto il mondo arabo (trasmessa dal network panarabo MBC), in Pakistan e in Indonesia, dall’altro ecco che vengono confezionati prodotti ad hoc dai tratti decisamente più tradizionali, allo scopo di accompagnare l’intrattenimento televisivo a una rivincita della storia e dell’immaginario turco in zona che un tempo erano assoggettate a Istanbul.

Il caso più clamoroso è quello di  Muhteşem Yüzyıl (Il secolo magnifico), una sorta di soap opera storica incentrata sulla vita e sulle vicende di Solimano il Magnifico, uno dei sultani più importanti nella storia dell’Impero Ottomano. Un successo incredibile, in patria e all’estero, che ha rinfocolato l’interesse verso la storia turca e la comune identità ottomana svanita circa un secolo fa e che ha toccato zone anche piuttosto lontane da Istanbul. Basti pensare ai Balcani (dalla Bosnia alla Croazia, dalla Macedonia alla Serbia, dal Kosovo alla Slovenia), dove ha toccato picchi di ascolto impensabili, soprattutto se consideriamo che stiamo parlando del racconto di un Impero che proprio nei Balcani ha avuto il suo campo di battaglia più difficile e cruento, visto che quella zona d’Europa ha sempre rappresentato una sorta di terra di confine tra Oriente e Occidente.

In realtà, nonostante il successo planetario (in Italia era andata in onda sulla rete multiculturale Babel Tv), Il secolo magnifico non era piaciuta al sultano dei giorni nostri Erdogan, secondo cui mostrava la storia turca “in una luce negativa alle giovani generazioni”. Interessante, però, l’analisi che ne aveva fatto sul New Yorker Elif Batuman, secondo cui, nonostante le critiche di Erdogan e del suo partito, Il secolo magnifico aveva raggiunto quegli obiettivi che le stesse politiche del presidente turco si prefiggono: “Grazie alle politiche economiche di Erdogan, la Turchia ha una florida industria televisiva, capace di e mettere in scena elaborate serie in costume, e una prospera classe media di musulmani desiderosa di vedere i propri valori riflessi in una ambientazione storica. E, così come la politica estera di Erdogan ha promosso relazioni con paesi già parte dell’Impero Ottomano, ‘Il secolo magnifico’ ha conquistato grandi ascolti nei Balcani, nel Caucaso, nei paesi arabi, riuscendo a raggiungere il principale obiettivo di Erdogan: costruire una versione della Turchia potente, de-secolarizzata, impegnata sulla scenario globale, che sia al tempo stesso plausibile e attraente”.

Cherry Season, dunque, è solo l’ultimo di una lunga serie di esempi di come la televisione turca sia riuscita a diventare egemone in tutto il Medio Oriente. Forse è l’esempio più occidentalizzato, quello più adatto alla nostra cultura e alla nostra tv, ma l’irresistibile ascesa della tv turca è un processo decisamente più complesso e ampio, che ha una funzione fondamentale nella strategia di Erdogan della trasformazione del Paese in una solida potenza regionale (e globale).

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