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La sharing economy sembra aver scoperto la formula vincente per i consumatori (acquista quello che vuoi quando vuoi) per i fondatori che senza capitali in pochi anni creano uno straordinario valore finanziario, e per i prestatori d’opera (lavora quando vuoi e guadagna quanto vuoi). Ma, a ben guardare, per questi ultimi non è il Paese di Bengodi che ci vogliono far credere. Le più famose sono i trasporti privati di Uber con oltre 200mila autisti; l’affitto temporaneo di camere di Airbnb che ha superato la catena Hilton per numero di spazi; ma anche i servizi professionali per web, design comunicazione di PeoplePerHour; i servizi a chi non ha tempo per comprare il cibo per il cane o pulire la casa di Taskrabbit.

Al di là delle resistenze dei concorrenti tradizionali, in prima linea i tassisti, e della lentezza regolatoria dei policy maker, il vero rischio per la nuova impresa proviene proprio da un quesito che riguarda il capitale umano: i prestatori d’opera in realtà sono dipendenti a tutti gli effetti? Una risposta positiva aprirebbe una crepa nel modello di business di imprese che gestiscono il mercato attraverso piattaforme e app dedicate a mettere in contatto la domanda del consumatore con un produttore del servizio o bene richiesto, prelevano una percentuale del prezzo, ma evitano di possedere o controllare i mezzi di produzione.

Adesso un primo livello di giudizio di un tribunale in California ha stabilito che i driver di Uber non sono lavoratori autonomi, bensì dipendenti. Nel caso in cui fosse costretta a cambiare il rapporto con tutti i suoi autisti, la società dovrebbe sostenere enormi costi addizionali, dall’assicurazione sanitaria ai contributi per la pensione, all’assicurazione per eventuali danni. Non deve meravigliare che l’azienda possa incappare in un simile problema poiché il management nel settore per la sua natura è formato da esperti di tecnologia, di marketing o di finanza e, secondo Arnaldo Camuffo e Severino Salvemini dell’Università Bocconi, nel prossimo futuro le aziende dovranno attrezzarsi con modalità innovative per gestire le persone.

Tuttavia, è chiaro che la sharing economy non concepisce il concetto di dipendente, al contrario basa la sua forza rivoluzionaria sulla rottura del modello di organizzazione del lavoro durato 100 anni. Non esistono più le prestazioni lavorative continuative (il posto fisso, un contratto a tempo indeterminato, la gerarchia, l’utilizzo di strumenti dell’impresa), la persona lavora on demand solo quando c’è richiesta per i suoi servizi, prodotti o competenze e con propri mezzi. Il nuovo tipo di lavoro può aiutare le persone nello sviluppo di una maggiore autonomia e, forse, per alcuni migliora la soddisfazione lavorativa. Nel mondo anglosassone dove sono cresciute, le aziende degli workers on tap (i lavoratori “alla spina”) hanno attratto in prevalenza studenti, disoccupati, pensionati e casalinghe in difficoltà a trovare un part-time, e hanno consentito a questa popolazione di assorbire le difficoltà occupazionali della crisi e ad alcuni ha offerto la libertà desiderata. Un segmento del mercato del lavoro che chiede precise condizioni: prendersi cura delle competenze personali, mantenerle aggiornate, sviluppare la capacità di vendersi e, ultimo non meno importante, mantenere l’ottimismo per rialzarsi dopo un insuccesso o semplicemente quando l’agenda è vuota.

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