Il ‘tridente’ di Obama non basta: Putin la spunta col pressing
Dall’inizio del 2015 la presenza militare russa in Siria si è in effetti assai intensificata, in numero e in qualità. L’effetto politico è stato progressivamente incalzante. Prima, l’accordo energetico con la Turchia. Poi lo storico accordo nucleare del 4 luglio che ha posto la fine delle sanzioni contro Teheran. Infine, le plateali dichiarazioni d’intento in Siria. L’interventismo della Russia (e quello della Francia) ha smascherato le “contraddizioni paralizzanti” dell’Occidente e risaltato l’imbarazzo della Casa Bianca che propugna una strategia detta del “tridente”: bombardamenti aerei, raid delle forze speciali, aiuti ai ribelli anti Assad. Il problema è che non basta. Per i russi, l’equazione è un’altra: Assad controlla meno di un quarto del territorio nazionale. Inoltre, c’è il rischio che il terrorismo islamico tracimi nelle regioni caucasiche e poi nella stessa Federazione russa. Per questo occorre intervenire subito. Per questo il problema Assad viene dopo la guerra all’Is, tra le cui fila ci sarebbero più di 1500 cittadini russi. Dobbiamo agire come fu contro Hitler. Tutti insieme, magari non appassionatamente, ma determinati a sgominare il virus dello Stato islamico. E questo, l’America da sola non può farcela. E’ finita l’era degli Usa sceriffi del mondo. C’è bisogno di un’altra superpotenza, ha detto Putin nel discorso all’Onu, lasciando intendere che questo ruolo è ricoperto ormai dalla Russia. Come ai tempi della Guerra Fredda (ma questo l’hanno detto gli americani…). Déja-vu?

Gli effetti del risiko su Damasco. E Israele non sta a guardare (temendo Hezbollah e l’Iran)
Così Putin ha deciso di fiancheggiare Assad (mandando commandos d’assalto e truppe speciali, carri armati, cacciabombardieri, missili, blindati), dopo si vedrà. Secondo gli analisti (Rand Corporation) la Siria non sarà più la stessa che conosciamo. Non solo. Già ora l’iniziativa “muscolare” di Putin ha provocato slittamenti geopolitici che inquietano gli Usa. Teheran si è spostata decisamente verso Mosca, poiché comune è l’interesse di sostenere Assad e il ruolo di Hezbollah, da sempre legata all’Iran. Per non parlare di Baghdad, sempre più riluttante nei confronti di Washington. Dopo lo storico accordo sul programma nucleare iraniano, lo scorso 4 luglio, lo sdoganamento di Teheran ha aperto nuove prospettive, non soltanto economiche e gli Stati Uniti speravano si traducessero anche in situazioni di convergenza strategica nel Medio Oriente. Lo spostamento dell’Iran verso la Russia ha destabilizzato tutto. Al punto che Gerusalemme si è inserita nelle grandi manovre, cercando un accordo politico e militare col Cremlino: il viaggio lampo di Benjamin Netanyahu a Mosca lo scorso 21 settembre per scongiurare “malaugurati incidenti” (nel caso i missili russi potessero finire nelle mani di Hezbollah) e per porre le basi di un’intesa strategica per “convergenze più ampie in Medio Oriente”. Israele ha capito che non si può più prescindere da Mosca se si vuole combattere l’avanzata dell’Is e contemporaneamente tenere a bada Hezbollah. Ad uso e consumo dei media, il premier israeliano si è affrettato nel dichiarare che tutti “i particolari della sua missione in Russia sono stati riferiti a Washington, nostro fondamentale alleato”.

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