Il 19 giugno a Roma si è tenuto il terzo congresso organizzato dai redattori del sito web Roars. Nonostante Roars si rivolga in teoria a un pubblico molto settoriale (i docenti universitari), dalla sua fondazione quattro anni fa ha avuto un numero di visite impressionante, quantificabile in circa dieci milioni, a dimostrazione di quanto l’università sia sentita come patrimonio pubblico. Sulle pagine web si sono succeduti una serie d’interventi tesi a ‘demistificare’ le leggende circolanti riguardo l’università italiana, di cui un sunto è qui.

La capacità di Roars di evidenziare le distorsioni del sistema universitario è largamente riconosciuta. Tuttavia nei commenti si leggono tra le (poche) critiche la mancanza di proposte concrete. Ho partecipato con tanti altri al loro incontro, e il tema ‘caldo’ è la situazione dei ricercatori all’inizio della carriera.

Prima del 2015, nell’università convivevano tre figure di ‘personale strutturato‘, ovvero con un contratto a tempo indeterminato, i ricercatori universitari, i professori associati e i professori ordinari. La legge Moratti ha abolito i ricercatori a tempo indeterminato, e la legge Gelmini ha introdotto due nuove figure Rtd-a e Rtd-b. Gli Rtd-a (Ricercatori a tempo determinato di tipo ‘a’) hanno un contratto di tre anni estendibili a cinque, requisito di accesso dottorato di ricerca. Gli Rtd-b sono stati anche definiti ‘ricercatori tenured-track’, cioè dopo tre anni dovrebbero accedere direttamente al ruolo di professori associati a condizione di ottenere l’abilitazione scientifica nazionale. Con queste due categorie convivono gli assegnisti di ricerca, che sono ricercatori il cui contratto dura uno o più anni.

La numerosità delle diverse classi è inversamente proporzionale alle tutele lavorative: ad oggi, ci sono circa 16.000 assegnisti di ricerca, 2.500 Rtd-a e 300 Rtd-b. In ultima analisi, dopo quattro anni dalla ‘riforma’ Gelmini c’è una grande confusione e soprattutto chi fa ricerca all’interno dell’università, anche fosse un novello Einstein, ha futuro almeno nebuloso. L’età media di chi entra in ruolo adesso è di quasi quarant’anni. L’attività di ricerca richiede tempi lunghi per ottenere risultati. L’incertezza sulla propria condizione lavorativa porta gli studiosi a indirizzarsi verso progetti che portino risultati anche minimi prima possibile (publish-or-perish), lasciando da parte quelli ad ampio respiro. Questa situazione alimenta la cosiddetta ‘fuga dei cervelli‘ verso altri paesi che offrano delle situazioni lavorative migliori. Nei prossimi anni si assisterà a una sostanziale riduzione del corpo docente delle università a causa dei pensionamenti, e al momento è previsto l’ingresso di pochissime persone (gli Rtd-b). Questa è una ricetta sicura per il disastro. È chiaro che una qualsiasi azienda, ma anche una semplice squadra di calcio, perderebbe velocemente competitività senza sostituire in modo valido i pensionati con nuove leve. Anche i più accesi sostenitori della legge Gelmini si rendono adesso conto di quali siano le criticità principali e come le norme attuali siano del tutto inique e inadeguate a garantire il ricambio generazionale.

Ad esempio, solo gli Rtd-b possono entrare in ruolo, ma per diventare Rtd-b serve aver usufruito di un contratto Rtd-a. Il contratto di Rtd-a è molto oneroso e soprattutto può essere attivato anche tramite fondi derivanti da contratti privati ‘conto terzi’. Ci sono paradossalmente tantissimi ricercatori non strutturati che sono stati anni all’università, possono avere addirittura l’abilitazione scientifica nazionale come professori ordinari ma non possono partecipare ai bandi per semplici Rtd-b. Di contro, chi ha la possibilità di usufruire di fondi di ricerca da privati può avere un canale preferenziale per entrare in ruolo nel quale il merito passa in secondo piano. Quali possono essere i correttivi per dipanare questa matassa? Una proposta del Cun (Consiglio Universitario Nazionale, il “parlamentino” degli universitari) è l’introduzione del Professore Iunior, una figura a tempo determinato che sostituirebbe tutto quello che c’è adesso. Tuttavia, una riforma sulle riforme rischia di essere modificata in modo peggiorativo o stravolta durante i passaggi parlamentari.

Una proposta emersa durante il convegno e nelle discussioni sul sito è la reintroduzione dei ricercatori a tempo indeterminato, che in realtà sono stati aboliti dalla legge Moratti. Questo sarebbe realizzabile in modo semplice, abolendo un paio di articoli di legge. Torniamo indietro? Perché no, dato che nessuna delle promesse delle leggi Moratti/Gelmini è stata mantenuta (canali rapidi per riconoscere il merito, abbassamento dell’età di entrata in ruolo).

Se i danni maggiori all’università sono derivati dall’eliminazione dei ricercatori a tempo indeterminato, non c’è motivo per non riconoscere questo errore. Errare è umano, perseverare è diabolico.

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