Ormai lo dicono già moltissimi economisti a tutte le latitudini del mondo: la Grande Recessione non è finita e si sta anzi lentamente trasformando in gravissima depressione globale. Il perché lo spiega in modo magistrale (come al solito) l’esimio economista premio Nobel 2008 per l’economia Paul Krugman nel suo articolo Revenge of the Unforgiven  sul New York Times di domenica scorsa.

Krugman ripete ancora una volta l’esortazione a non ragionare sui conti dello Stato come se fosse un bilancio famigliare: “Per una famiglia ridurre le spese in tempo di crisi è una manovra virtuosa, non lo è invece per una nazione, perché in una nazione le mie spese sono il tuo ricavo, e le tue spese sono il mio ricavo. Se entrambi riduciamo le spese contemporaneamente sara’ proprio la nostra manovra virtuosa a provocare la crisi”.

L’austerity in tempo di crisi peggiora la crisi. E’ già successo prima. Krugman fa l’esempio della Gran Bretagna nel 1919 e degli Usa nel 1937 quando, per fare in fretta, ottennero solo di far abortire la ripresa e rispedire di nuovo il paese in recessione (vedasi: “1937”).

Ma ci sono anche grandi istituzioni finanziarie, come il Fondo Monetario Internazionale (certamente non sospettabile di ideologia comunista) a sostenere che è ora per l’Europa di cambiare strategia (vedasi l’articolo del Nyt).

The world appears to be stumbling’ (il mondo appare come una corsa ad ostacoli, dice Krugman), le borse hanno recuperato interamente e abbondantemente i valori del 2008 ma adesso, con una economia globale in discesa ovunque, non riescono più a fingere che tutto va bene e il “nervosismo” degli operatori è già una chiara indicazione che anche la fase della volatilità è satura. E dopo la volatilità, in borsa, c’è solo la “correzione” o il crollo.

Specialmente in Europa però una forte “correzione” degli indici economici di borsa riporterebbe l’intero continente in recessione e, con un continente già piagato da altissimi livelli di disoccupazione, l’esito sarebbe o una inevitabile lunga depressione o una frantumazione dell’Unione Europea, con il ritorno agli stati nazionali e alle singole monete.

Draghi vorrebbe mano libera nell’acquisto del debito dei paesi più indebitati (Grecia, Italia, Spagna), ma i “falchi” europei guidati dalla Merkel dicono di no. Quindi potrebbero essere i due più forti partners europei dopo la Germania (cioè Francia e Italia) a spiegare alla Germania che non c’e altra scelta: o si dà a Draghi il potere di acquistare tutto il debito che occorre per fermare la frana economico-finanziaria o la frana diventerà inarrestabile.

C’e però un altro aspetto che occorre valutare e che anche Krugman accenna: queste soluzioni “monetarie” per governare le crisi sono in realtà solo dei palliativi che servono a calmare la febbre, ma non a curare la malattia. La malattia oggi è un debito globale che continua a crescere spinto dalla “finanza creativa”. Ed è una crescita del tutto asimmetrica rispetto al valore dei beni prodotti nel globo. Quando si arriva a questo punto, se si vuole ritornare ad una economia virtuosa senza sconvolgere gli equilibri mondiali diventa necessario cancellare almeno in parte il debito.

Si può fare in due modi: in modo diretto, rinegoziando il debito tra le parti, oppure in modo nascosto, tenendo i tassi vicino allo zero mentre l’inflazione sale di almeno tre o quattro punti percentuali.

L’inflazione, se ben governata si “mangia” il debito in modo molto più sopportabile che nelle assurde politiche di austerity, anche se, come è ben noto, a patirne più gravemente il peso sarebbero sempre i “soliti” del reddito fisso.

Naturalmente, insieme all’inflazione, bisognerebbe ripristinare anche le vecchie regole che, fino agli anni 80, impedivano alle banche ordinarie di fare “trading” coi soldi dei depositanti.

Ma sorge a questo punto un dubbio forte sulle strane scelte strategiche dei vertici europei. Come abbiamo visto, la scelta di rientrare dal debito attraverso l’austerity non è una scelta obbligata essendocene altre adottate da tutte le altre nazioni del mondo quando necessario. Perché allora l’Europa ha avviato contro ogni ragionevole buon senso una linea così distruttiva dell’economia, e tuttora insiste così pervicacemente nel mantenerla, avendo in soli tre anni distrutto gran parte della propria economia e benessere?

Non essendo possibile pensare che a quei vertici ci siano degli sprovveduti, bisogna per forza concludere che ad essi va bene così. E l’unico motivo consistente può essere solo quello che è la strada più semplice per scardinare in tempi brevissimi il differenziale del costoso welfare europeo con le altre economie, sia industrializzate che emergenti.

In un sistema capitalista iperliberista globalizzato la normalizzazione al minimo comun denominatore delle tutele e delle provvidenze per i cittadini e per i lavoratori è indispensabile a mantenere agevole il sistema della competizione soprattutto con i paesi delle economie emergenti, anche se esalta la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Negli Usa questa linea è già chiaramente marcata e visibile (più nella linea repubblicana che in quella democratica). L’unica resistenza arriva solo dal “bastione Europa”, ma ormai, se nemmeno i governi dei socialisti di Hollande in Francia e degli ex comunisti del Pd in Italia sono interessati ad alzare le barriccate, è solo questione di tempo, poi la strada per loro sarà tutta in discesa.  

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