Non che ci fossero dubbi. Sul suo conto c’erano solo insinuazioni. Reali, invece, le ingiustizie. Su Mauro Di Vittorio, 24 anni il giorno in cui morì nell’esplosione alla stazione di Bologna insieme ad altre 84 persone, oggi si può infatti dire che sia una vittima “oggettiva” di quella strage e che ciò che è stato detto di lui – indicato come possibile trasportatore dell’esplosivo usato nell’eccidio del 2 agosto 1980 – “è del tutto insufficiente” a collegarlo all’esecuzione dell’attentato. I virgolettati sono contenuti alla pagina 62 della richiesta di archiviazione che la procura del capoluogo emiliano ha inviato al gip per chiudere la cosiddetta “pista palestinese“. Siamo dunque al passo che precede la parola fine non solo alle incriminazioni dei tedeschi Thomas Kram e Margot Christa Frohlich, indagati nel 2011 per la bomba di 34 anni fa. Ma anche per coloro che, nolenti, furono chiamati in causa in un filone d’indagine che non ha retto al riscontro dei fatti.

È questo quindi il momento di restituire a Mauro Di Vittorio la sua identità. Non un militante dell’Autonomia di via dei Volsci, come già smentito anche dal leader di quel gruppo, Daniele Pifano. Ma un ragazzo che, per citare le parole della sorella Anna, “era un pezzo di pane”. Mauro era un fricchettone con idee di sinistra che leggeva, come tanti in quegli anni, Lotta Continua. Ma era un giovane che dopo la morte del padre si era trovato di fronte alla necessità di lavorare per contribuire al mantenimento per la famiglia. Pochi grilli politici, quindi, nessuna militanza estrema, ma una consapevolezza con cui fare i conti: la crisi c’era anche nel 1980. E c’era pure per un operaio specializzato, un tornitore, che aveva deciso di puntare verso Londra alla ricerca di uno stipendio e – perché no? – di un’esperienza lavorativa che gli facesse vivere un pezzo di vita al di fuori del suo mondo d’origine, il quartiere romano di Torpignattara.

A Bologna, il 2 agosto 1980, c’era perché all’ingresso con la Gran Bretagna era stato respinto per mancanza dei requisiti economici necessari ad ammetterlo nel regno di sua maestà. E allora, via Parigi, aveva fatto dietrofront per tornare nella capitale italiana. Ma giunto a Bologna l’esplosione non gli aveva lasciato scampo: a ucciderlo fu una grave ferita al cranio. Inoltre, come a molti altri in prossimità dell’onda d’urto, la bomba gli aveva lasciato anche “ustioni estese su larga parte della superficie corporea”. E, per usare ancora il gergo della medicina legale, “si è trattato di una morte molto rapida”.

Da 34 anni, Anna Di Vittorio, con il marito Gian Carlo Calidori, va al cimitero ogni 2 agosto e sta in silenzio ripensando a quel ragazzo “incapace di ‘fare’ del male perché incapace di ‘pensare’ il male”. Di recente la donna ha ascoltato un vecchio amico di Mauro raccontarle di quella volta che lui era sparito, durante una gita nella campagna romana, e poi lo avevano ritrovato tempo dopo tranquillo che chiacchierava con un anziano sconosciuto perché lui era così, uno che dava confidenza a tutti, a cui piaceva confrontarsi con tutti, senza distinzioni di età, militanza politica, esperienze di vita.

Appresa la notizia della richiesta di archiviazione, Anna oggi dice di aver agito correttamente mettendosi “a disposizione della giustizia e incontrando il pubblico ministero Enrico Cieri e il vicequestore Antonio Marotta.L’Italia è uno Stato di diritto e la giustizia e la nostra maestra. Io la penso così e così mi comporto”. Le rimane solo un senso di amarezza. Amarezza non tanto per le accuse immotivate rivolte al fratello morto nell’eccidio, ma perché “nella mia vita di cittadina semplice, mi sono ritrovata – ‘sola’ – a difendere una vittima del terrorismo. Mi sono ritrovata – ‘sola’ – a difendere una sentenza definitiva sulla strage alla stazione“.

 

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