Secondo l’analisi di Telefono Rosa a proposito di femminicidio l’indipendenza economica resta un fattore fondamentale di affrancamento dal contesto violento. Lo conferma l’ampia quota di vittime disoccupate (19%), inferiore solo a quella delle impiegate tra le italiane (23%) e a quella delle colf/badanti, ricattabili, povere, vessate da una cattiva legislazione sull’immigrazione, tra le straniere (27%). Non vengono considerate le sex workers uccise, anche quelle spesso migranti, povere, ricattabili, costrette alla clandestinità.

La povertà, la dipendenza economica e l’impossibilità di esigere diritti inclusa la garanzia del diritto di cittadinanza, sovraespongono le donne. Non si capisce che le politiche contro la violenza devono ragionare di prevenzione a tutti i livelli, inclusa la materia economica, la possibilità per le donne di avere reddito e lavoro, e sono tutte cose che le istituzioni fanno fatica a prendere in considerazione, concentrate come sono a imporre alle donne ruoli di cura.

Perché se sei dipendente economicamente non potrai che svolgere ruoli di cura, di servizio, a poco prezzo o gratis. Perché se sei dipendente economicamente non ti resta che affidarti a chi ti mantiene o a chi ti dà elemosine per campare. Quante sono le donne, ma in generale le persone, che accettano situazioni pessime per sopravvivere? Quante restano a vivere con un uomo violento per avere un tetto, da sfamarsi, per se e i propri figli? Quante accettano ricatti osceni per un misero permesso di soggiorno? Quante sono costrette a subire perfino molestie o violazioni di diritti nel contesto lavorativo?

E poco conta se sei diplomata, laureata, perché il mercato del lavoro ti condanna comunque alla precarietà, perciò questa è la ragione per cui, stranamente, donne che hanno un livello di istruzione anche alto restano alla mercè di situazioni che altrimenti non vivrebbero mai.

Vi racconto una storia: una ragazza prende la laurea, non vuole più vivere con i suoi genitori, ha una madre opprimente, a volte violenta, che ha minato la sua autostima e la stalkerizza in continuazione. Lei cerca un lavoro, una stanza presso cui abitare, dopo qualche mese di fatica e sacrifici si convince che non ce la farà e migra in un paese straniero. C’è sempre il miraggio che le cose siano meglio altrove e invece lì c’è sempre un affitto da pagare, un buon lavoro da trovare e quando si rende conto che è tutto molto complicato sceglie di tornare in Italia e come prima cosa conosce un tale che può garantirle non moltissimo ma almeno un letto e da mangiare.

All’inizio sono tutte rose e fiori, si amano, anche se in altre condizioni la ragazza non sarebbe certo subito andata a vivere con lui, sarebbe stata più prudente, avrebbe mostrato più autonomia, e poi le cose si fanno complicate. A lei non piacciono di lui alcune cose, a lui non piacciono di lei alcune cose, finisce che quella convivenza, iniziata male, finisce altrettanto male. Lei che sperava di poter nel frattempo trovare un lavoro in realtà non trova nulla. Lui che pensava a lei come una regina del focolare si sente poco amato. Quando lei dice che vuole fare non so quale corso a spese del compagno lui all’inizio la supporta ma poi si rende conto che potrebbe perderla. Lui possessivo, lei in fuga. Quando la resa diventa evidente quella ragazza torna a vivere con la sua famiglia. Capisce che non c’è contesto familiare che possa garantirle autonomia senza ricatti e senza pretese. Capisce che quello che tutti vogliono da lei non è quel che vuole dare. Lei mente con se stessa, gli altri mentono con lei. Nessuno in grado di dire esattamente quel che si desidera. Nessuno è in grado di stabilire un rapporto senza fare perno sulle dipendenze, sul potere che da esse deriva, sul controllo di chi ha poca autonomia. 

In questa storia non c’è di mezzo un figlio perché altrimenti sarebbero altri guai, ma giusto un avvicendarsi di tentativi alla ricerca di una indipendenza che nessuno ti regala mai. Imparare questo è una grande lezione. Non c’è il principe azzurro che ti salva. Un uomo non è il tuo genitore e se le istituzioni non investono in una diversa definizione dei ruoli di genere avremo sempre donne frustrate che si rifugeranno nell’idea classica di famiglia perché non hanno alternative e uomini che approfitteranno della inferiorità, per quanto in certi casi solo economica, delle donne.

E’ un uso reciproco, calibrato secondo i piani di un welfare stantìo, che risponde al progetto di istituzioni familiste, catto/fasciste, che pensano che altro le donne o gli uomini non sappiano e non debbano fare. Perché non è vero che nella società esistono mille opportunità che le persone e le donne in questo caso possono sfruttare. Le donne sono povere, lo sono tanto quanto gli uomini e spesso lo sono anche di più. La povertà, l’assenza di reddito e casa, è uno dei motivi per cui alcune donne muoiono. Quando non hanno soldi per lasciare la casa di un uomo violento. Quando non hanno diritto di cittadinanza in una nazione che se straniera ti riceve solo a patto che tu pulisca i culi dei vecchi. Quando non hanno una prospettiva futura e tutto quel che viene loro detto, in un’incessante propaganda che colpisce in egual modo donne e uomini, è che la tua felicità è la famiglia, e che solo così una donna può realizzarsi. Solo così un uomo può realizzarsi. 

Quando è successo che uomini e donne hanno potuto avere spazio per investire nella propria autonomia? Ecco: la maggior parte delle situazioni violente nascono da una motivazione culturale, il possesso, anche il sessismo, che resta implicito nelle relazioni che non possono emanciparsi da questo. La maggior parte delle situazioni violente nascono perché io, tu, lei, lui, non abbiamo mai, forse, avuto scelta. E se non hai una scelta percorri sentieri già tracciati, interpreti ruoli imposti e non fai che assumere la posa di tuo nonno, di tua nonna, del vicino, della parente prossima, della figura che guardi tutti i giorni in quella pubblicità e pensi che a te andrà bene. Così non è quasi mai. Chissà perché.

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