Cari Concittadini,

è con viva e vibrante soddisfazione che ho assistito in questa fine del 2013, anno ottavo dell’era napolitaniana, alla definitiva liquidazione (i quaglioni dicono “rottamazione”) del pernicioso concetto di “età assoluta”; l’idea balzana che ognuno manterrebbe indelebilmente l’età indicata da un insignificante papello: la sua carta d’identità. Quando – invece – il criterio di scadenza per sopravvenuti limiti anagrafici va considerato alla stregua di una “categoria dello spirito” alla Benedetto Croce: se sali sul carro dei rottamatori non sei più rottamabile, se largamente intendi largamente sarai cooptato, anche se rischi di inciampare nel tuo stesso catetere.

Sicché plaudo convintamene a quanto dichiarato dal sempre fido premier in materia di “sfida dei quarantenni”, assicurandogli la pronta e pugnace discesa in campo, a fianco e tutela della trimurti dei nati quarant’anni fa (‘Angiolino’ AlfanoEnrico LettaMatteo Renzi), di una nuova formazione trinitaria composta da virgulti che videro la luce il doppio di quarant’anni fa: oltre alla mia augusta persona, Eugenio Scalfari ed Emanuele Macaluso. Doppiamente quarantenni che rinforzeranno l’ardire dei coetanei anagraficamente dimezzati con la forza delle loro incrollabili opinioni.

Il fondatore di Repubblica, asceso al soglio di pontefice della laicità grazie alle segrete frequentazioni con papa Bergoglio (di cui la ben nota modestia e riservatezza che contraddistingue l’aspirante epigono di Montaigne ha preferito che mai ne fosse fatta ostentativa menzione), ora può scomunicare ogni pur vaga pulsione movimentista, magari accusando benignamente di parricidio l’inquieta Barbara Spinelli. A sua volta il buon Macaluso potrà apportare alla sfida dei quarantenni (duplici o singoli che siano) l’incommensurabile testimonianza di quella grande esperienza politica che è stato il Migliorismo: l’encomiabile sforzo di rimettere a fattor comune le tradizioni disperse dal Congresso di Livorno del 1921 all’insegna della gloriosa tradizione affaristica medievale, che risale tanto ai mercanti fiorentini e pratesi come ai cambiavalute lombardi e genovesi nelle fiere di Lione e dello Champagne.

Da parte mia assicuro il fermo e incrollabile impegno nella lotta contro la perniciosa attitudine ribalda declinata nella formula “eppur si muove”; la pretesa di cambiare prospettiva che risale all’eresiarca Galileo Galilei, per giungere fino alle bande odierne degli indignati e dei pentastellati.

Saldo come un cardinal Bellarmino, il saggio esiliatore della follia che perturbò i crateri lunari, offro la mia stessa biografia quale migliore riprova possibile di un’identificazione nella grande scuola di pensiero partenopeo, erede degli intellettuali della Magna Grecia che condannavano con Eraclito il movimento in quanto degradazione, arrivarono a negarlo con Zenone l’eleatico. Quella grande scuola che vede campeggiare Gianbattista Vico, teorico con i suoi “corsi e ricorsi” della naturalità dell’immobilismo; a ciò ispirato dalla stessa Madre Natura, che offre una rappresentazione icastica di tale principio con l’adorabile criceto che corre a perdifiato nella ruota della gabbietta restando sempre al punto di partenza.

Proclamo la mia immedesimazione in tale gloriosa summa di sapienza risalente già agli anni Cinquanta, quando mi scrollai di dosso le fisime infantili sul Comunismo – insieme a colleghi del Pci, come il compianto Paolo Bufalini e il pluralistico Mario Alicata, tutti cresciuti nella lezione togliattiana del quieta non movere (ed emarginare le teste calde che prendevano la rivoluzione sul serio) – grazie all’illuminazione che il vero nodo concettuale prioritario era ed è quello di tenere a bada la società con le sue riottosità sovversive; imponendole platonicamente l’egemonia normalizzante dei filosofi di partito. Dunque, rivolgendo lo sguardo all’immutabile eternità che trova la sua naturale traduzione politica nelle larghe intese, finalizzate a disciogliere ogni problema nei tempi infiniti del rimando.

Procedendo a ritroso, un eterno ritorno alla monarchia repubblicana, da me incarnata financo fisiognomicamente grazie alla singolare somiglianza con il principe Umberto di Savoia, poi “re di maggio”. E lo dico indifferente alle miserevoli malignità sull’abitudine d’anteguerra del futuro monarca pro tempore di intrattenersi privatamente con disponibili signore e signorine, anche nell’amata città di Napoli…

Insomma – cari concittadini – l’intento di questo mio messaggio augurale è quello di rassicurarvi: sotto la mia attenta e insonne regia quirinalizia niente verrà toccato e nulla sarà modificato, in misura tale da non turbare in alcun modo il vostro sacrosanto diritto al torpore.

Per questo: buon 2014. Nella certezza che sarà identico a tutti quelli che lo hanno preceduto nell’ultimo ventennio.

Viva l’Italia. Viva la Repubblica. Viva il Re.

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