Quando ho ricevuto l’invito per partecipare al tavolo di confronto per la riforma del codice della strada presso la sede dell’Anci, ho stampato le proposte emerse dagli Stati Generali della Bicicletta dell’ottobre 2012 a Reggio Emilia e mi sono preparato le migliori argomentazioni possibili per sostenerle immaginandomi che sarebbe stato uno scontro durissimo sui contenuti. Poi è successo l’inaspettato. Giovedì scorso, all’interno della sala riunioni, Pierfrancesco Maran, fresco della sua nuova nomina a responsabile mobilità dell’Anci, ha fatto consegnare a tutti i presenti un documento dal titolo “Proposte di modifica del codice della strada” e, di seguito, un elenco di richieste rivolte al ministero dei trasporti che mi ha lasciato a bocca aperta: case di arresto avanzate in prossimità dei semafori, abrogazione dell’obbligo per le biciclette di circolare sul margine destro della carreggiata, piano generale della mobilità ciclistica e, soprattutto, il limite di 30 km/h all’interno delle aree urbane sono solo alcune delle proposte contenute nel documento presentato (il testo integrale lo potete trovare qui).

Per un attimo ho pensato di trovarmi nella classica scena da film americano in cui il poliziotto buono (in questo caso l’Anci) e il poliziotto cattivo (il ministero) si contrapponevano tra loro sapendo bene che alla fine la cosa si deve necessariamente risolvere con un nulla di fatto: alla fine l’Italia è il paese del Gattopardo e “bisogna che tutto cambi affinché nulla cambi”. Ma a quel punto ha preso la parola il Sottosegretario del Ministero dei Trasporti, Erasmo De Angelis: “Serve una volata nelle politiche e nelle normative per rincorrere la ciclo-rivoluzione in corso. Ed è quello che faremo. L’Italia della mobilità è cambiata e riscopre la bicicletta, sempre più mezzo di trasporto urbano quotidiano e non solo come veicolo per cicloturismo, sport e svago. A dirlo sono i dati del clamoroso sorpasso delle due ruote sull’automobile che dopo 48 anni vedono nel 2012 1.748.000 bici vendute a fronte di 1.450.000 automobili immatricolate. La mobilità nuova non è più una parolina spot da inserire nei documenti, ma sta diventando lo scenario di riferimento nelle aree urbane dove il nostro Paese a livello europeo è secondo solo alla Grecia per numero e gravità dei sinistri che coinvolgono anche le due ruote. Città più sicure e sempre più attraenti con aree pedonali e zone 30 a misura di bicicletta e la revisione delle norme che regolano la circolazione per tutelare pedoni e ciclisti saranno i riferimenti del nuovo codice della strada”.

Le parole di D’Angelis mi hanno lasciato di sasso e l’unica cosa che mi veniva in mente era uno sbalordito “porca vacca”: scoprire a distanza di quasi due anni che la quasi totalità delle rivendicazioni della campagna #salvaiciclisti sono diventate le richieste dei comuni italiani sottoscritte addirittura dal viceministro mi ha fatto correre un brivido dietro la schiena. Ma è presto per montarsi la testa: per quanto questa riforma del codice della strada stia nascendo sotto i migliori auspici possibili, tutto può ancora succedere. Adesso la mossa sta al ministero dei trasporti che martedì 19 novembre a Milano presenterà la propria bozza di riforma all’interno della quale potrà anche decidere di rigettare interamente tutte le proposte ricevute e di perpetrare il solito atteggiamento autocentrico. Qualunque cosa succeda occorre però sottolineare un paio di innegabili evidenze:

  1. Il rapporto ACI-ISTAT sull’incidentalità stradale presentato ieri dimostra in modo perentorio che se il numero degli incidenti stradali in Italia è in diminuzione nel suo complesso (-9,2 per cento), il numero dei morti in bicicletta è ancora in aumento (+2,5 per cento) a testimonianza del fatto che le nostre città sono dei luoghi ancora tristemente inadatti ad ospitare il cambio nelle abitudini di mobilità degli italiani e che occorre al più presto prendere le dovute contromisure.
  2. Le proposte avanzate dall’Anci al ministero dei trasporti in larga misura non necessitano di interventi legislativi ad hoc, ma della semplice volontà politica di modificare le condizioni di viabilità all’interno dei comuni italiani per renderli sempre meno simili a degli autodromi con vista sui più bei monumenti del mondo e sempre più dei luoghi in cui valga la pena vivere.

I sindaci italiani dovrebbero saper leggere questa palese cartina di tornasole: quand’anche la riforma del codice della strada dovesse malauguratamente fallire per una repentina caduta del governo Letta o tradursi nella classica montagna che partorisce il topolino a causa di pressioni occulte che noi umani possiamo solamente immaginare, la loro responsabilità per quanto avviene sulle strade delle loro città non muterebbe di una virgola. Che fare quindi? Occorre partire dall’assunto che il compito primario di qualunque amministratore è la tutela della vita e della sicurezza dei propri amministrati e prendere nota del fatto che (sempre secondo il citato rapporto Aci-Istat) il minore tasso di mortalità stradale nelle città italiane si registra a Genova e a Bari, ovvero in quelle aree urbane caratterizzate da strade particolarmente strette e in cui è impossibile viaggiare ad alta velocità. Ovvero in quelle aree urbane in cui esiste una naturale moderazione del traffico motorizzato.

La riduzione del limite di velocità in area urbana a 30 km/h è una richiesta che proviene dall’Europa (Direttiva 2011/82/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2011), dall’Anci e dal Ministero dei Trasporti. I sindaci italiani adesso possono scegliere se aspettare di essere costretti dal codice della strada ad occuparsi della sicurezza dei propri cittadini oppure anticipare la legge per dimostrare ai propri elettori di essere degli amministratori lungimiranti in grado di capire e interpretare i cambiamenti in atto nella società. Mai come oggi è facile fare bella figura ed è un’occasione da non lasciarsi sfuggire.

 

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