La proposta di abolizione del reato di immigrazione clandestina approvata in Commissione Giustizia su iniziativa dei senatori del Movimento 5 Stelle è stata finora l’unica risposta concreta non solo alla tragedia di Lampedusa, ma anche al fiume di retorica che ne è seguito. Ma oggi Grillo e Casaleggio hanno prontamente messo all’indice i responsabili dell’iniziativa, in un post durissimo che, evento raro, porta la firma di entrambi. Se applicassimo ai due guru del Movimento la dietrologia che essi riservano al resto del mondo, diremmo che il loro obiettivo è alimentare la guerra tra poveri che contrappone gli italiani colpiti dalla crisi ai migranti più disperati, perché le pulsioni irrazionali e un po’ becere che ne derivano sono, insieme all’esasperazione per le storture della politica e alla difficoltà di arrivare a fine mese, nutrimento vitale per il consenso dei demagoghi di ogni tipo e colore.

“L’emendamento – si legge nel comunicato – è un invito agli emigranti dell’Africa e del Medio Oriente a imbarcarsi per l’Italia. Il messaggio che riceveranno sarà da loro interpretato nel modo più semplice ‘La clandestinità non è più un reato’. Lampedusa è al collasso e l’Italia non sta tanto bene. Quanti clandestini siamo in grado di accogliere se un italiano su otto non ha i soldi per mangiare?”. Parole che sembrano fondate sul rifiuto pregiudiziale del diverso, che col solo suo arrivo nel nostro paese ne metterebbe in pericolo il benessere e l’ordine pubblico, e sull’idea che i migranti vengano a togliere il pane di bocca ai lavoratori italiani. Tale retorica non solo è esecrabile sul piano morale, per la sua intrinseca matrice xenofoba. È anche dal punto di vista economico che le invettive di Grillo e Casaleggio – e di altri come loro – non reggono.

Proviamo ad astrarci per un attimo dal problema (“problema”, non “reato”) dell’immigrazione clandestina e degli sbarchi, e dalle loro inevitabili implicazioni in termini di ordine pubblico. L’immigrazione è, di per sé, fonte di opportunità per il paese accogliente, specie se questo, come l’Italia, deve affrontare la prospettiva di una popolazione in calo e sempre più anziana. Come ho provato a spiegare in questo intervento, un’economia moderna e dinamica non può prescindere da una società moderna e dinamica, in cui l’innovazione – tra i motori fondamentali della crescita economica – viene incoraggiata in ogni modo.

L’innovazione, soprattuto in una società apparentemente immobile come la nostra, non può che giovarsi del contributo di creatività, talento e impegno dei lavoratori stranieri. Lo sanno bene paesi più lungimiranti (e non a caso più ricchi) del nostro, che formulano le loro politiche dell’immigrazione in modo del tutto scevro da contaminazioni ideologiche – diversamente da quanto, da noi, è accaduto con la legge Bossi-Fini – e nei quali il dibattito pubblico sull’integrazione marginalizza quanto più possibile le posizioni fondate su xenofobia e pregiudizi razziali.

Più in generale, per potersi esprimere al meglio e sviluppare appieno la loro creatività, i lavoratori devono sentirsi accettati. Le discriminazioni basate sull’etnia, sul genere, o sull’orientamento sessuale, non fanno che deprimere la creatività dei lavoratori, sia di quelli discriminati sia degli altri (che si trovano a operare in un ambiente meno stimolante e dinamico), con conseguenze negative in termini di innovazione e, infine, di crescita economica.

È chiaro che i migranti a bordo dei barconi non sono necessariamente dei potenziali lavoratori qualificati, come è ovvio che non sono tutti stupratori (come pure è stato sostenuto da alcuni il giorno dopo la tragedia di Lampedusa). Gli sbarchi di clandestini sono un problema specifico che richiede soluzioni specifiche. Tuttavia, il clima che le invettive di Grillo (e non solo) contribuiscono a creare non dà un contributo positivo nemmeno alla questione più generale dello sviluppo di una moderna cultura dell’integrazione e dell’innovazione. Il fatto drammatico che “un italiano su otto” non riesca a stare a galla nella crisi, che giustamente Grillo denuncia, non è in contrasto col bisogno disperato di innovazione della nostra economia. Se l’economia migliora la sua propensione a innovare, anche attraverso lo sviluppo di una adeguata cultura della tolleranza e dell’integrazione di ogni diversità, a parità di condizioni tutti ne beneficiano, compresi i poveri. Sul piano economico non ha senso contrapporre le sfide dell’integrazione con i livelli allarmanti di povertà che si registrano nel nostro paese, perché non è l’integrazione a causare la povertà. Anzi, l’innovazione e il dinamismo che generalmente scaturiscono da un processo di integrazione ben riuscito non possono che dare un contributo positivo al benessere della collettività.

Il problema economico, semmai, è lo spreco di risorse causato dalla politica del “rispediamoli tutti a casa”, ancora più grave in tempi di spending review. Secondo le stime di Lunaria, tra controlli alle frontiere, detenzione, rimpatri e burocrazia abbiamo speso un miliardo e seicento milioni in dieci anni. Il grosso della spesa riguarda i Centri di identificazione ed espulsione, che di fatto sono delle strutture carcerarie sorvegliate dalle forze dell’ordine, nelle quali si può stare fino a 18 mesi (anziché 30 giorni come inizialmente previsto). I ricercatori di Lunaria hanno stimato che le strutture, il personale, il vitto, la manutenzione e  la sorveglianza sono costati, finora, 143,8 milioni di euro all’anno. Rimuovere il reato di immigrazione clandestina, come i senatori del M5S hanno tentato di fare nella  Commissione Giustizia del Senato, è un primo, piccolo, passo per ridimensionare questi sprechi e, nel più lungo periodo, per promuovere anche attraverso leggi più equilibrate una cultura che sia più favorevole all’innovazione.

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