C’è sempre una prima volta. Un giorno in cui il cronista se lo chiede: “Perché lo faccio? Chi mi dà il diritto di entrare nella vita di chi soffre, di parlare di persone che magari non ci sono più e non possono rispondere?”. A chi scrive è successo tante volte: davanti a Silvio Pezzotta, il povero padre di Mariangela, uccisa dalle Bestie di Satana. Davanti alla famiglia di Marta Russo. Di fronte allo sguardo smarrito di genitori, fratelli di ragazzi uccisi, morti in incidenti d’auto.

“Perché lo faccio?”. È il diritto (e dovere) di cronaca, ti rispondi. Ma sai che non basta, se non dai un significato profondo a quella parola. Cronaca, appunto, che sa di carta stampata, di copie vendute, di giornalisti assiepati davanti a una porta per strappare due parole al familiare di turno. Se ti fermi qui, bè, allora non ha proprio senso. Hai ragione tu a sentirti in colpa e l’opinione pubblica a parlare di curiosità morbosa. Ma la cronaca (anche la nera) può, deve essere molto di più: è il tentativo di raccontare il mondo in tutta la sua complessità, di capire la vita. E, addirittura, la morte.

Ritornano alla mente le straordinarie e terribili pagine di A sangue freddo di Truman Capote che ti accompagna in un viaggio nella mente di due killer accusati di aver sterminato una famiglia americana. Noi non siamo Capote e dobbiamo provare a racchiudere le storie, le grandi domande che suscitano in sessanta righe. Una responsabilità da far tremare i polsi, di cui il cronista non sempre si rende conto.

E, però, sbaglia chi liquida la questione indicando il cronista come un voyeur. Certo, spesso solletichiamo una curiosità non sana, talvolta morbosa. Capita di mancare di rispetto alle vittime, come quando ci fu chi pubblicò le fotografie del cadavere di Sarah nel pozzo di Avetrana dove il suo assassino l’aveva sepolta mezza svestita.

Non dobbiamo dimenticarci mai che “maneggiamo” il dolore, la vita e la morte. Non devono dimenticarsene i capi redattori che chiedono di non fermarsi mai per strappare un dettaglio che valga un titoletto. Ma non dobbiamo rinunciare a scrivere. Pensiamo alle pagine di questi giorni: ai misteriosi suicidi di ragazzi a Saluzzo, con l’ombra del satanismo. Al bestiale omicidio di Corigliano. Sarebbe più facile lasciar stare, così da sentirci superiori a queste miserie e da evitare al lettore un turbamento. Più semplice, ma sbagliato.

Parlare dei poveri ragazzi che compiono un gesto estremo forse spinti da una setta satanica significa raccontare un fenomeno fastidioso solo da leggere, ma che va conosciuto per essere affrontato: tacerne sarebbe consegnare centinaia di adolescenti a una minaccia terribile. Significa raccontare il vuoto di valori e speranza della ricca provincia del nord. Scrivere di Corigliano, di un gesto che pare da bestie più che da uomini, ci spinge, ci costringe a capire quanto può essere infame l’uomo, soprattutto quando vive nell’ignoranza, nell’assenza di rispetto per gli altri.

Il cronista non è Pierpaolo Pasolini che ci ha rivelato la vitalità talvolta disperata delle borgate romane, ma con i suoi articoli può aiutare a descrivere un mondo, che non deve essere ignorato anche quando si vuole davvero cambiarlo. Ma c’è altro, forse: un piccolo articolo, se scritto con rispetto e senso di responsabilità, può fornire un minimo sollievo alle vittime. Può farle sentire meno sole se arriva a suscitare nell’opinione pubblica perfino compassione, nel senso profondo del termine: patire insieme. E può aiutarci ad afferrare un frammento della complessità della nostra vita di cittadini e di esseri umani. Che devono capire, prima di giudicare, perdonare o semplicemente pensare. Che sono chiamati a comprendere le ragioni delle vittime, ma che devono anche conoscere le spinte – pure se folli e malate – dei responsabili.

Allora la cronaca ci porta lontano, ci mette di fronte ai baratri vertiginosi che si aprono nella mente. E porta noi stessi, talvolta, sul ciglio del vuoto che abbiamo dentro (anche il cronista e il suo inseparabile compagno, il lettore). Non possiamo girare lo sguardo da un’altra parte. Il cronista lo sa bene, le sue parole non cambieranno nulla. Anzi, talvolta si sente come un medico impotente che può soltanto diagnosticare la malattia, ma non ha una terapia da somministrare. Toccherà ad altri provarci.

 

il Fatto Quotidiano, 28 maggio 2013

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