La ministra Fornero ha riaperto il capitolo della riforma del mercato del lavoro in un modo forse sbagliato. Ha infatti sostenuto in un’intervista al Corriere della Sera che l’art.18 dello Statuto dei lavoratori non deve essere un tabù. L’intervista ha suscitato l’immediata reazione della Camusso (segretario generale della CGIL) che ha accusato la Fornero di essere autoritaria e ha dichiarato che l’art.18 è la linea del Piave per il sindacato.

Insomma l’art. 18 in Italia è oramai o un Tabù o un Totem.

Com’è noto, l’art.18 prevede il reintegro al lavoro per quei lavoratori che sono stati licenziati senza giustificato motivo nelle aziende con oltre 15 dipendenti.  E’ proprio il reintegro – da parte del giudice del lavoro – ciò che secondo molti rappresenta l’aspetto più fastidioso per i datori di lavoro. Il paradosso italiano, però, è che è molto più semplice licenziare 800 o 2.000 dipendenti che non licenziare un singolo dipendente. Nel caso di crisi economica infatti non ci sono ostacoli al licenziamento di massa, in questi casi infatti, l’impresa può utilizzare la cassa integrazione come strumento transitorio prima di interrompere, eventualmente, del tutto il rapporto di lavoro. Mentre invece per il licenziamento individuale sono previsti vincoli. Ma quanto è importante l’art.18? Se si guarda a quanti lavoratori vengono reintegrati dai giudici del lavoro in Italia si scoprono numeri irrisori: 40, 50 lavoratori al mese. Questo anche perché spesso il dipendente licenziato e l’azienda, già oggi, si mettono d’accordo su un compenso monetario in cambio del mancato ricorso in tribunale.

Qualcuno sostiene che siccome l’art.18 si applica al di sopra della soglia dei 15 dipendenti esso rappresenterebbe un ostacolo alla crescita delle imprese italiane: per evitare i “costi aggiuntivi” derivanti dall’art.18 le imprese resterebbero piccole, più piccole rispetto alla loro dimensione ottimale e questo avrebbe effetti negativi sull’industria. In verità, se si passa dalle analisi teoriche alla verifica empirica di questa tesi si scopre che non ci sono evidenze robuste a sostegno di questo fenomeno. Fabiano Schivardi e Roberto Torrini (economisti della Banca d’Italia) in un loro lavoro del 2004 hanno mostrato come non ci sia alcuna evidenza dell’effetto di scoraggiamento della crescita delle imprese riconducibile all’art.18. Le imprese italiane restano piccole per varie ragioni: assetti proprietari familiari, difficoltà di accesso al credito, pressione fiscale, vincoli istituzionali; ma l’art.18, di per sé, non ha un ruolo particolarmente forte. In linea con questi risultati sono le ricerche contenute nel volume a cura di F. Traù, La questione dimensionale nell’industria italiana, Bologna, il Mulino, 1999.

Seconda questione: il 95 percento delle imprese italiane ha meno di 10 dipendenti, e quindi nel 95 per cento delle imprese italiane già ora non si applica l’articolo 18. Nella quasi totalità delle imprese italiane già ora non ci sono protezioni contro il licenziamento individuale.
Terza questione: vi sono in Italia 3.750.000 lavoratori precari ai quali non si applica lo Statuto dei Lavoratori e l’art.18 e questa forse è la vera questione. Qualcuno sostiene che le aziende non assumano a tempo indeterminato questi lavoratori perché hanno paura che poi non potrebbero licenziarli in caso di difficoltà di mercato.Va detto che questo sarebbe il caso solo se l’azienda assumendo i lavoratori precari superasse la soglia dei 15 dipendenti. Non sempre è così. Inoltre va osservato che molti di questi lavoratori precari sono occupati nel settore pubblico, nel quale non è l’articolo 18 il nodo ma altre forme di protezione.

Allora: l’art.18 è un tabù o è un totem? Penso che non debba essere visto né come un tabù né come un totem.

Se il nodo è quello di riequilibrare i diritti tra chi è dipendente di una grande impresa e gode della protezione dell’art. 18 e tutti i giovani (3.750.000) privi di tutele allora va ripensato il sistema attuale di contratti di lavoro. Vi sono oggi in Italia quasi quaranta diverse modalità di assunzione che creano una grande frammentazione dei diritti e dei percorsi lavorativi. Molte di queste figure contrattuali hanno un utilizzo scarso da parte delle imprese.

La strada allora di una riforma del mercato del lavoro è quella di pensare a una semplificazione delle forme contrattuali. Una soluzione potrebbe essere quella di un contratto di apprendistato e formazione che consenta all’impresa e al lavoratore di conoscersi reciprocamente, prevedendo la possibilità dopo un certo arco di tempo di sciogliere il contratto stesso qualora non vi sia perfetta e mutua soddisfazione. E prevedere invece un grado crescente di protezione e di tutele al passare del tempo. Andrebbe semplificata la gamma di contratti e introdotto il principio che la flessibilità costa di più. L’azienda che offra contratti a termine, privi di tutele, deve offrire un salario più alto rispetto a quanto previsto dal normale contratto a tempo indeterminato. Come del resto accade oggi per le posizioni elevate: i dirigenti privati e pubblici assunti con contratto a tempo determinato hanno remunerazioni più alte, non più basse rispetto a chi è assunto a tempo indeterminato.  La riforma quindi dovrebbe prevedere un periodo di massima flessibilità (nessun vincolo alla possibilità di licenziare) ma un percorso di crescente tutela.

Questo tipo di riforma si applicherebbe ovviamente ai nuovi contratti e chi ha le tutele dell’art.18 non subirebbe cambiamenti. Va osservato che la precarietà eccessiva di questo decennio ha avuto un effetto deleterio sulla produttività. L’utilizzo massiccio di contratti a breve termine ha creato incertezza e scarso attaccamento al lavoro da parte dei dipendenti. Se si è sempre in ansia per paura che alla fine dei 12 o dei 18 mesi il contratto non venga rinnovato, se il rapporto è di brevissimo termine e fondato su partite iva (finte) si avrà meno disponibilità ad apprendere fino in fondo le pratiche e le routine lavorative. Se ogni anno si rimpiazza il dipendente con uno nuovo per risparmiare sul costo del lavoro è chiaro che non ci saranno mai quei percorsi di apprendimento e di formazione che in alcuni paesi, come la Germania, consentono alle aziende di arrivare a elevati livelli di produttività del lavoro. La eccessiva precarietà consente di ridurre i costi nel breve termine ma danneggia l’impresa nel medio termine perché riduce la dinamica della produttività.

Sarebbe davvero deleterio però oggi riaprire il conflitto sindacale su un tema secondario come l’art.18. Se il nuovo ministro del lavoro ricompattasse il fronte sindacale sulla linea dello scontro e degli scioperi a difesa dell’art.18 sarebbe un vero disastro. Si apra la discussione sul mercato del lavoro partendo dall’idea di una semplificazione, di uno scoraggiamento della precarietà, e di un nuovo sistema di ammortizzatori sociali esteso a tutti e non solo ai lavoratori (più anziani) tutelati. Si utilizzino i fondi della cassa integrazione guadagni per creare una vera indennità di disoccupazione universale, che copra anche i giovani che perdano il lavoro.

Ma evitiamo le guerre di religione.

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