Mentre il caldo record continua ad avvolgere un’Italia intontita da alleanze elettorali e corse alle vacanze, ho dato uno sguardo d’anteprima ad alcuni film che usciranno nelle sale a fine agosto. Inizio dal più duro, e tutto sommato abbastanza indigesto, Crimes of the future, in uscita il 24. Era uno dei ritorni più attesi quello di David Cronenberg a Cannes. Affiancato da Viggo Montersen, suo attore feticcio, Léa Seydoux e Kristen Stewart, il regista canadese sforna un film che su carta prometteva bene. Le prime immagini rimandavano al suo lungo viaggio tra le metamorfosi corporee applicate a tecnologia e futuro tra la nostra società e i nostri incubi. In questo futuro invece non ben definito l’uomo evolve organicamente in maniere curiose, a Montersen addirittura crescono nuovi organi dalle funzioni sconosciute. Estrarli in happening pseudo-artistiche, per lui e la Seydoux che lo affianca come compagna di vita e assistente di performance organiche, è un piacere tra fetish e masochismo che eguaglia il sesso.

Questa società dipinta da Cronenberg ci fa riflettere ovviamente sulla nostra. Quindi abolizione del dolore (per loro fisico, per noi tabù morale), chirurgia estetica interiore (per loro delle interiora), ambientalismo deviante (visto che un propulsore narrativo è l’omicidio di un bambino mutato geneticamente e capace di mangiare e digerire plastica), il sesso chirurgico (come spettacolarizzazione ancora più avanzata della pornografia). Il tutto pone i personaggi, soprattutto quello irrisolto della Stewart, all’interno di un crocevia tra sesso, arte e fusione spirituale della coppia. Se in Videodrome Cronenberg attaccava la dipendenza catodica di una società piegata sul teleschermo, e se con Existenz fantasticava con le connessioni web intrecciandole all’organicità di nuche antesignane dell’USB, con Crimes of the future prende di mira il sesso, le sue mistificazioni materialistiche a base di silicone e interventi portando il livello di percezione dell’estetica e del piacere a una carnalità estrema: la chirurgia. Concettualmente molto disturbante, nella messa in scena però ci si perde non tanto per il basso budget di effetti visivi (tutto è palesemente posticcio e in gomma) ma in un’atmosfera mai convincente, ai limiti del grottesco.

Dagli Usa arriva invece l’ennesima parte da spaccone perfetta per Brad Pitt. Quanto si divertirà su questi set? Se con Tarantino le dava a Bruce Lee, in Bullet Train, al cinema dal 25 agosto, sempre con un bel pizzico di goliardia, gli tocca combattere contro pericolosissimi passeggeri del treno superveloce tra Tokyo e Kyoto. Un andirivieni di assassini intorno a quest’uomo attempato, occhialoni, un buffo cappello da pescatore, pure convinto di portarsi sfortuna, ma lì solo per recuperare una valigetta in metallo piena di soldi. Inizialmente un lavoretto facile. È l’idea base di un prodotto tutto polvere da sparo e dialoghi iperbolici al testosterone (nella prima parte pure piuttosto insostenibili, diciamolo) che chiama in azione Yakuza, mafia russa, cartelli messicani, sapienti samurai, sicari e doppiogiochiste di vario tipo. Undici in tutto e molto pittoreschi, ci manca giusto la nostra banda della Magliana, ma forse se la tengono per il sequel.

Il romanzo originale da cui si parte, I sette killer dello Shinkansen, di Kōtarō Isaka è del 2010. Anche il film scorre sul treno Shinkansen. Trecento all’ora di confort hi-tech, eppure il minutaggio estenuante di due ore lo porta a somigliare più a un luna park da poltrona. David Leitch, già regista di Deadpool 2 e uno spin-off di Fast&Furious, non è male per i corpo a corpo e la qualità esecutiva di certe scene distruttive. Però asciugando il film delle star provenienti dai 5 angoli del globo, marchi sponsor e paroloni da duri, resta giusto un action estivo roboante e patinato con la chiara ambizione a scollare dalle spiagge di mezzo mondo i bagnanti più giovani.

Con Fire of Love abbiamo invece un lavoro che partirebbe in sordina, è un documentario su due vulcanologi, ma si rivela un’avvincente love story tra i due scienziati con una spettacolarità immersiva nelle lave di mezzo mondo da togliere letteralmente il fiato. Al cinema anche questo dal 25 agosto, mette in luce la storia di Katia e Maurice Krafft, vulcanologi francesi, moglie e marito inseparabili, tenaci e tenerissimi, istintivi e profondamente esperti, che con le loro esplorazioni e ricerche documentate da incredibili foto e video a distanze ravvicinatissime hanno dato moltissimo alle Scienze della Terra.

Il doc firmato Sara Dosa è il coronamento di una filmografia iniziata da producer, principalmente su temi ecologici orientati alle relazioni umane. La sua grande elaborazione d’archivio risulta molto affascinante perché forte di una linea narrativa tra i due scienziati e i loro studi dal perfetto equilibrio drammaturgico. Una love story deliziosa e struggente che ha tutte le potenzialità per arrivare alla cinquina per il Miglior documentario agli Oscar del 2023. E poi, lasciatemelo dire, i Krafft somigliavano incredibilmente a Tilda Swinton e Geoffrey Rush. Ma nessun film di finzione o effetto speciale potrebbe restituire mai quella verità tra umani e vulcani così evidente in Fire of Love.

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