di Marco Pozzi

Per un giocatore di basket o di volley, quando si gioca, intorno si hanno i cori dei tifosi dentro al palasport; per un giocatore di tennis, si hanno volti che rimbalzano nel silenzio guardando la pallina; per una danzatrice su ghiaccio si ha la musica che dà il ritmo alla propria esibizione. E se intorno ci fosse una dimensione irreale, tutta distorta nei suoni e nei riflessi, che in più esercita uno strano effetto sul tatto, magari pure nell’olfatto? Quale sport può fregiarsi di questa particolarità?

È l’immersione subacquea, spesso associata allo svago vacanziero d’un’escursione piuttosto che a una disciplina sportiva vera e propria. E invece lo è, per come richieda un allenamento del corpo, aggiunto a uno studio tecnico delle leggi naturali e a un controllo mentale che forse non ha eguali per complessità e importanza. Ne ho parlato con Marica Baggio e Riccardo Squinzani, presidente e vice dell’associazione “Nsa – Nuoto Subacquea Apnea”, istruttori che dal 2018 sperimentano la subacquea rivolta a persone con qualsiasi tipo di disabilità (fisica, cognitiva e sensoriale); organizzano laboratori inclusivi, una subacquea per tutti insegnata col metodo didattico chiamato “Diverseability”, nato col supporto di Dan (Divers Alert Network, un 118 subacqueo), con lezioni in piscina e uscite in mare, e diploma finale.

Mi spiegano che ogni percorso con gli atleti è personalizzato. Si comincia con la presentazione della disciplina, poi ci si immerge in piscina, gradualmente si arriva alle immersioni in mare e a volte, quando si acquisisce dimestichezza e s’è formato un bel gruppo, si organizzano viaggi-escursione in posti più esotici (ad esempio Marica e Riccardo stanno pianificando un viaggio a Sharm, per far scoprire i pesci e i fondali tropicali).

Specialmente con le disabilità è importante discutere insieme di ciò che si sente fuori e dentro l’acqua. Nella subacquea non esiste una via predefinita di miglioramento, che spinga a restare sempre più a lungo sott’acqua, oppure sempre più a fondo. La progressione consiste piuttosto nel rielaborare le esperienze per guadagnare autosufficienza, sicurezza, autostima.

Sotto metri d’acqua tutti ci si sente di vivere una disabilità, circondanti da un elemento in cui non possiamo respirare, tanto affasciante quanto potenzialmente letale. Perciò, oltre che l’immersione con le bombole, è toccante l’esperienza dell’apnea, che diventa occasione per lavorare sul respiro, ascoltando il proprio corpo e il proprio essere in una maniera nuova. Forse l’immersione è così adatta alle disabilità perché la disabilità è condivisa tra chiunque affronti questa disciplina; la Natura ci riguarda con più forza, ci livella tutti a una dimensione di difficoltà comune. L’acqua può essere inospitale, ma al tempo stesso è anche un ambiente ovattato, dove non ci sono luci né rumori forti, tanto da risultare accogliente, piena di pace: addirittura fonte di benessere.

Marica e Riccardo mi raccontano che in immersione non c’è gravita, ci si sente più liberi; le distanze sembrano non esistere; gli stimoli sono ridotti, è meno probabile sentirsene sopraffatti come invece magari accade in una coda al supermercato o passeggiando in una piazza rumorosa di città.

Benché con codici diversi, sott’acqua si sviluppa interazione fra i ragazzi, una socialità subacquea dove spesso si lavora in coppia e ciascuno deve prendersi cura del proprio compagno. È una sorta di reset dei rapporti d’ogni giorno nel mondo: laggiù si ricomincia in un altro modo, e chi nei rapporti consueti si sente a disagio laggiù può vivere una seconda occasione, un nuovo modo di percepire e percepirsi, ipotizzare una nuova autostima, una nuova identità. Sott’acqua non si comunica più con le parole, bensì a gesti, e le possibilità dell’esprimersi si limitano al saluto, al segnalare l’ok nella respirazione, a un dammi-il-cinque, limitando quella vertigine di possibilità che può creare disagio in certe situazioni nel mondo.

Il racconto mi ha fatto venire in mente Novecento di Alessandro Baricco e il discorso del Pianista, che soltanto sulla tastiera finita di un pianoforte trovava l’alfabeto con cui esprimersi (anche qui c’è l’acqua, l’oceano, come la subacquea in piscina – sarà un caso?). “I tasti iniziano. Tu sai che sono 88, su questo nessuno può fregarti. Non sono infiniti, loro. Tu, sei infinito, e dentro quei tasti e infinita la musica che puoi fare. Loro sono 88. Tu sei infinito. Questo a me piace. Questo lo si può vivere”, mentre se guardi il mondo “si srotola una tastiera di milioni di tasti, […] milioni e miliardi di tasti che non finiscono mai, […] e se quella tastiera è infinita, allora su quella tastiera non c’è musica che puoi suonare. Tu sei seduto su un seggiolino sbagliato: quello è il pianoforte su cui suona Dio.”

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