Fanno sorridere le parole di Eugenia Roccella, nuovamente contestata durante un evento pubblico, che si lamenta di aver subito censura. Per comprendere perché tale dichiarazione è solo vittimismo, bisogna tornare indietro di qualche settimana. A Catania, quando studenti e studentesse e realtà Lgbt+ locali hanno contestato un convegno organizzato da Scienza & Vita su disforia di genere e carriere alias.

Il convegno, tenutosi nel rettorato dell’Università etnea, è stato reputato fortemente lesivo delle persone transgender. La protesta è stata tale che i convegnisti (il maschile non è casuale) hanno preferito annullare i lavori. Le associazioni arcobaleno hanno cantato vittoria. Altri, invece, hanno parlato – appunto – di censura.

Luigi Renna, vescovo di Catania e ospite del convegno, ha definito il caso “una sconfitta per tutti”. Chiedendosi: “La democrazia non è il sogno di chi dialoga, o è l’imposizione di un pensiero unico che non si confronta mai con nessuno?”. Domanda a cui risponde Alessandro Motta, presidente dell’associazione queer Open Catania e responsabile delle politiche queer e transfemministe di Arci Catania: “Non si può dare voce a delle posizioni (scientifiche e religiose) che propinino ancora la sciocchezza dell’esistenza di una fantomatica teoria gender nel senso in cui voi la intendete”.

Continua ancora, Motta, toccando il tema a cui era dedicato il convegno stesso: “La vostra attenzione per le soggettività trans, i loro percorsi di affermazione di genere, il loro desiderio di essere nominate col nome che hanno scelto e non con quello che è stato loro imposto, alla luce della carità cristiana di cui lei è latore appare una ingiustificata ossessione, un immotivato piano, un tragico scopo”. Non può esserci dialogo con chi non riconosce la dignità e l’esistenza delle persone Lgbt+, è il sunto delle sue parole.

Anche Roccella, come l’arcivescovo, sposta il piano critico della questione non sui contenuti contestati, ma su una presunta censura contro chi ha un pensiero difforme. Parlando apertamente di censura. Parola che, come si diceva in apertura, fa sorridere se si pensa che chi la agita ha un accesso tale ai media che qualsiasi realtà contestatrice può solo immaginare e in scenari più che fantastici.

La censura, infatti, presuppone un rapporto di asimmetria tra chi detiene il potere e chi vi si oppone. Affinché la censura sia tale, il potere interviene reprimendo chi lo contesta. O chi propone una visione del mondo alternativa. Fu censura il tentativo della chiesa cattolica – con buona pace di ogni vescovo – di impedire a Galileo di poter diffondere le sue scoperte scientifiche. Fu censura quella austriaca, contro i primi giornali italiani che parlavano di ideali liberali e democratici. Fu censura quella che il fascismo esercitò contro tutti quegli intellettuali che si opposero al regime.

In tutti questi casi abbiamo una realtà dominante che opera una violenza (dall’invisibilizzazione all’annientamento) su soggettività oppresse dal potere. Chiesa e governi non possono essere censurati per due buone ragioni: gestiscono il potere e, in ragione di ciò, hanno libero accesso ai mezzi di comunicazione.

Il caso del collettivo transfemminista Aracne, che agli Stati Generali della Natalità ha contestato la rappresentante di un governo ritenuto illiberale e pericoloso per la tenuta democratica del Paese, e il caso delle associazioni Lgbt+ e studentesche a Catania non possono ricadere nella definizione di “censura”. Tali realtà, nel rapporto asimmetrico col potere, occupano infatti il gradino più basso. Il termine esatto è un altro: dissenso. E esso è un pilastro fondamentale di qualsiasi sistema democratico.

Dovrebbero riflettere su questa particolare differenza coloro che, dai pulpiti delle loro cattedrali o dagli uffici dei propri ministeri, si lamentano di un silenziamento che di fatto non esiste. Si ha un certa difficoltà a credere, infatti, che vescovi e ministri abbiano problemi a esprimere liberamente le proprie idee.

E dovrebbero riflettere, quanti e quante abusano del significato del termine “censura” (così come di “genere” e altre ancora). Ripensando a Orwell, autore molto frainteso dalle destre, quando il potere muta il significato della parole, abbiamo un problema. Di tenuta democratica, appunto. In una democrazia, invece, il potere va contestato e anche duramente (rimanendo nell’ambito della legalità). È la democrazia, bellezza. Anche se comprendo che possa dar fastidio.

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