di Silvia Gariboldi * e Ivan Lembo**

Garantire la dignità del lavoro delle persone detenute, sia che questo si realizzi alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria sia che venga svolto per aziende esterne. Favorire la piena attuazione dell’art. 27 della Costituzione, che attribuisce alla pena una funzione rieducativa. Questi gli obiettivi che caratterizzano, da oltre 30 anni, l’azione della Cgil, sulle questioni che segnano la condizione delle persone ristrette.

In questa ottica si inserisce la vertenza che da qualche anno il sindacato ha aperto nei confronti dell’Inps che, a partire dal 2019, nega il riconoscimento della Naspi ai detenuti che prestano attività lavorativa per l’amministrazione penitenziaria.

Due recenti sentenze del Tribunale di Milano dello scorso mese di aprile (n. 1335/2024 e n. 1895/2024) consolidano un orientamento giurisprudenziale a favore dei lavoratori su questo tema. I giudici milanesi sono stati chiamati infatti nuovamente a esprimersi in merito al diritto all’indennità di disoccupazione dei lavoratori ristretti, che prestano la loro opera in favore dell’amministrazione penitenziaria. Si tratta di lavoratori che svolgono, a rotazione, funzioni essenziali per la vita quotidiana del carcere, quali addetti alle pulizie, cuochi, manutentori, addetti alla consegna delle medicine e di altri beni necessari, ecc.

Il trattamento di disoccupazione è riconosciuto a tutti i lavoratori dipendenti, che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione e che presentino congiuntamente i seguenti requisiti:
a) siano in stato di disoccupazione involontaria (ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. c), del D. Lgs. n. 181/2000); b) possano far valere nei quattro anni precedenti l’inizio del periodo di disoccupazione almeno 13 settimane di contribuzione (art. 1, D.Lgs 22/2015).

L’attività lavorativa prestata all’interno degli Istituti penitenziari è disciplinata dall’art. 20 dell’Ordinamento Penitenziario (Op) (D.Lgs 354/1975) che, tra l’altro, prevede che la stessa possa essere organizzata a turni e sulla base di graduatorie, per garantire a tutti i detenuti di lavorare. Accade pertanto che, tra un turno e l’altro, il detenuto si trovi in uno stato di disoccupazione involontario, del tutto simile a quello del lavoratore subordinato del mondo libero a cui sia scaduto il contratto a termine.

In quest’ultimo caso, Inps riconosce pacificamente la prestazione poiché, correttamente, qualifica lo stato di disoccupazione che ne deriva come non determinato dalla volontà del lavoratore.

Tuttavia, nonostante sia l’Op evidenzi la finalità rieducativa del lavoro e riconosca una serie di situazioni soggettive tutelabili del lavoratore detenuto, identiche a quelle del lavoratore libero, nel 2019 l’Inps, con un proprio messaggio, ha stabilito – diversamente da quanto riconosciuto fino ad allora e senza che fosse intervenuta una modifica legislativa – che non dovesse essere riconosciuta la prestazione di disoccupazione in occasione dei periodi di inattività tra un turno e l’altro.

E’ in questo contesto che si inseriscono le sentenze di aprile, che confermano quelle altrettanto positive di dicembre 2023 (n. 4380/2023) e di novembre 2021 (n. 2718/2021), sempre del Tribunale di Milano, di maggio 2022 del Tribunale di Busto Arsizio (n. 238/2022) e quelle, ancora, di aprile 2024 del Tribunale di Siena (n. 42/2024) e di Firenze (n. 342/2024).

I giudici, partendo dal presupposto della equiparazione del lavoro intramurario a quello libero – pena la violazione del diritto costituzionale di eguaglianza – affermano che sia la cessazione dello stato di detenzione, sia la cessazione di un turno di lavoro, per il meccanismo dell’avvicendamento previsto dai regolamenti penitenziari, realizzano quello stato di disoccupazione involontaria che giustifica la concessione dell’indennità.

Non esistono, infatti, specifiche previsioni da parte della legge istitutiva della Naspi che escludano il riconoscimento della indennità ai detenuti. Nessun fondamento ha quindi la posizione assunta dall’Inps, secondo il quale il lavoro prestato per l’amministrazione penitenziaria ha carattere peculiare e non può determinare l’accesso all’indennità di disoccupazione.

Tale conclusione è confortata anche dalla recente pronuncia della Cassazione del mese di gennaio 2024 (Sent. n. 396/2024) che, richiamata l’evoluzione della disciplina del lavoro penitenziario, ha evidenziato come lo stesso abbia perso i tratti della specialità che lo caratterizzavano all’origine, riconoscendo in favore dei lavoratori detenuti i diritti spettanti a tutti i lavoratori.

Ricondotto, in generale, il lavoro del detenuto alle dipendenze del Dap nel novero dei comuni rapporti di lavoro, ed escluso che la cessazione del rapporto lavorativo possa considerarsi volontaria, la Corte afferma che “non consta alcuna ragione che renda il lavoro carcerario incompatibile con il riconoscimento nella Naspi in caso di perdita del primo”.

Una diversa interpretazione comporterebbe, oltre ad una ingiustificata diversità di trattamento, la violazione degli articoli 35 comma 1, 38 comma 2, 27 comma 3 della Costituzione, che sanciscono, nell’ordine: la tutela del lavoro “in tutte le sue forme e applicazioni” da parte della Repubblica; il diritto a che siano previsti e assicurati ai lavoratori “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia (…), disoccupazione involontaria”; che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

La continua soccombenza non sta convincendo Inps a rivedere le proprie posizioni, mettendo fine ad una discriminazione insopportabile e ingiustificata. L’azione del sindacato su questo fronte non si fermerà, continuando a raccogliere le domande di Naspi tra i detenuti degli istituti penitenziari e presentando ricorsi a fronte di respinte ingiuste e immotivate.

*avvocata giuslavorista, collabora con la Camera del Lavoro di Milano e il Patronato INCA-Cgil
**Responsabile Politiche Sociali Cgil Milano

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